Il 10 novembre 1938 il Consiglio dei ministri approvava le leggi razziali fasciste, annunciate per la prima volta da Benito Mussolini il 18 settembre 1938 a Trieste. Si trattava di una serie di provvedimenti legislativi e amministrativi, in vigore in Italia tra il 1938 e il 1945, volti a penalizzare le persone ebree. Ma la discriminazione fu solo colpa del fascismo? O in Italia il germe dell'antisemitismo trovò un terreno fecondo? Ripercorriamo i drammatici anni di segregazione e deportazione degli ebrei con l'articolo "Fratelli d'Italia", tratto dagli archivi di Focus Storia.
la Chiesa alimentò falsi miti. "Un colpo non meno vigoroso è stato inflitto agli ebrei dal Consiglio dei ministri nella tornata del 2 settembre". Parole di Goebbels? No, di Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, da sempre interprete del pensiero della Chiesa sulle questioni politiche e sociali. L'occasione: il varo delle leggi razziali nel 1938. "Vediamo attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo". Un inquisitore medioevale? No, padre Agostino Gemelli (1878-1959), fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, in appoggio a quelle leggi.
Nel 1924, per la morte di un intellettuale ebreo, padre Gemelli aveva scritto: "Ma se insieme con il positivismo, il socialismo, il libero pensiero e con il Momigliano morissero tutti i giudei che continuano l'opera dei giudei che hanno crocifisso nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio?". Poi, per giustificarsi, padre Gemelli rincarò la dose: era stata una "reazione alle brutture che ogni giorno si vedono: sono ebrei che ci hanno regalato il comunismo, la massoneria, il dominio delle banche e mille altre stregonerie di questo genere". Insomma, ce n'è quanto basta per chiedersi legittimamente se in Italia l'antisemitismo fosse già ben vivo prima delle leggi razziali approvate dal regime fascista. E come queste furono accolte dagli italiani.
Ebrei in Italia: un caso anomalo. Secondo gli storici l'antisemitismo di massa, diffuso da secoli nell'Europa Centro-Orientale o in Francia, in Italia non c'è mai stato. Non ci furono mai, come in Germania, in Austria, in Ungheria, movimenti politici o religiosi antisemiti. Rari nella storia i pogrom, i massacri di ebrei, abituali invece in Russia, Polonia, Ucraina. Due i motivi principali: lo scarso numero di ebrei presenti sul territorio italiano, mai più di 40-45 mila, e la riconosciuta parità di diritti con gli altri sudditi, sancita da Carlo Alberto di Savoia nel 1848.
Gli ebrei aderirono con entusiasmo al Risorgimento, accettando poi senza riserve il nuovo Stato italiano, e in gran parte persero progressivamente i tratti esteriori della religiosità per un ebraismo più laico e personale. "Ebrei di complemento", li definiva lo scrittore Primo Levi. Ci furono, agli inizi, anche molti ebrei fascisti. Difficile quindi, per la propaganda religiosa o politica, eccitare fanatismi contro di loro.
causa di ogni male. C'erano però gli antisemiti, i portatori dell'antigiudaismo teologico, l'antico odio del cristianesimo per gli ebrei accusati della morte del Cristo, responsabili di orrende pratiche sacrileghe, da rinchiudere nei ghetti. Sulla stampa cattolica o nelle prediche, già dalla fine dell'Ottocento si ripeteva fino alla nausea che gli ebrei erano causa della Rivoluzione francese, del Risorgimento, del capitalismo e del socialismo. Dopo il primo conflitto mondiale divennero colpa degli ebrei anche la guerra e la Rivoluzione russa.
Battaglia culturale. E all'antigiudaismo cattolico si affiancò quello politico dei nazionalisti e dei fascisti più accesi. Per loro, imbevuti di futurismo, culto della bellezza e della violenza, gli ebrei erano pacifisti, borghesi privi di spirito di avventura e di qualsiasi altro valore che non fosse il denaro. Fra i più attivi vi fu il giornalista Giovanni Preziosi, con la rivista Vita italiana, al quale si unì un prelato, Umberto Benigni. Il loro cavallo di battaglia furono i Protocolli dei savi anziani di Sion, un falso confezionato all'inizio del XX secolo dalla polizia zarista per avallare la tesi di un piano ebraico di conquista del mondo.
Il seme dell'odio. Antigiudaismo cattolico e antisemitismo nazionalista rimasero a lungo fenomeni marginali. Ma, come ha spiegato il massimo storico del fascismo, Renzo De Felice, «ciò non toglie che alcune gocce del veleno antisemita si spargessero in quasi tutti gli ambienti». L'Italia non divenne antisemita, ma gli italiani "fecero in un certo senso l'orecchio e si abituarono inconsciamente a certi argomenti" convincendosi che, in fondo, qualcosa di vero dovesse pur esservi. Gli effetti si videro con le leggi per la difesa della razza promulgate a partire dal settembre 1938. Per la Chiesa avevano "alcuni lati buoni". "Discriminare e non perseguitare" fu la posizione più o meno ufficiale. Ma «la discriminazione era persecuzione, la più barbara e la più ingiusta che da secoli la terra italiana avesse conosciuta», ha scritto De Felice.
Anche se talvolta le amministrazioni applicarono con scarso zelo le normative razziali, per la preoccupazione di bloccare interi settori commerciali tradizionalmente in mano agli ebrei, in pochi mesi migliaia di persone persero il lavoro.
Emma Terracina, deportata ad Auschwitz nel 1943, raccontava che il marito, meccanico specializzato all'azienda tranviaria di Roma, nel giro di tre giorni "fu allontanato dal lavoro, come altri ebrei che lavoravano con lui, senza ricevere alcun compenso per il mancato preavviso e nessuna solidarietà da parte dei colleghi".
Famiglie rovinate. Molti, vivendo solo di stipendio, finirono sul lastrico o dovettero subire odiosi ricatti. "Mio padre fu licenziato dalla compagnia di assicurazioni per la quale lavorava e iniziammo a peregrinare da Torino a Milano a Roma, alla ricerca di chi gli desse un lavoro qualsiasi, sempre clandestino e precario", ricorda Lia Levi (1931), oggi scrittrice.
I professionisti dovettero chiudere gli studi, professori e studenti ebrei furono espulsi dalle scuole. "Quando fui cacciato avevo appena iniziato la prima elementare e non riuscivo a capire quale colpa avessi commesso", testimonia Renato Astrologo (1932). "Ricordo molto bene la rabbia e la vergogna provata". Persero la licenza perfino venditori ambulanti, tassisti e osti. Anche lo scrittore e giornalista Luciano Tas (morto nel 2014) è sempre stato un testimone lucido di quei giorni: "Per continuare a lavorare, mio padre dovette cedere a un prestanome "ariano", ma pagandolo, la sua licenza di tagliatore di diamanti. Mio zio, commerciante, dovette trasformarsi in garzone di merceria".
Divieti tra il tragico e il ridicolo. Tra le tante norme vessatorie imposte dal regime, anche il divieto di possedere radio, di figurare negli elenchi telefonici, di raccogliere lana per materassi, di gestire scuole da ballo, di accedere alle biblioteche pubbliche, di pilotare aerei, di allevare colombi viaggiatori, di appartenere a club sportivi e di avere domestiche "ariane", perché «la razza "superiore" non poteva fare servizi a quella cosiddetta inferiore», spiegava De Felice.
Chi poté, emigrò; altri si fecero battezzare, nella vana speranza di sfuggire alle persecuzioni; nelle famiglie miste si crearono tragiche lacerazioni. Se la responsabilità maggiore fu del fascismo, ribadiva De Felice, è anche vero che «l'antisemitismo, dopo che superò il primo momento di resistenza degli italiani, fu da moltissimi di questi accolto come qualcosa di meno grave di quanto fosse sembrato in un primo momento». I giornali si riempirono di attacchi e calunnie sempre più personali e dirette ad avvocati, medici, attori e perfino sportivi ebrei. Partì la caccia al cognome ebraico, quasi sempre in base a criteri malamente orecchiati. Si diffusero le denunce anonime e le estorsioni.
Delatori e protettori. Peggio ancora fece il mondo della cultura: per scrittori, docenti, giornalisti fu l'occasione per mettersi in mostra, fare carriera, denaro, per sfogare rancori, per prendere il posto tolto al collega ebreo.
Solo con il crollo del fascismo e l'occupazione tedesca si comprese la vera natura delle leggi razziali e il Paese mostrò il meglio, e purtroppo anche il peggio, di sé: da una parte i molti che, rischiando la deportazione o la fucilazione, salvarono la vita a migliaia di ebrei nascondendoli nei conventi, nelle chiese, nelle soffitte, nei fienili, fornendo loro documenti falsi. Dall'altra tutta una serie di collaboratori, volenti o nolenti, che i tedeschi trovarono tra gli italiani per la realizzazione dei loro piani di sterminio.
Iniziano i rastrellamenti. È un fatto, secondo De Felice, che «polizia, carabinieri e militari, tranne casi sporadici, eseguirono passivamente gli ordini dei comandi tedeschi, compiendo arresti, rastrellamenti, traduzioni di ebrei». Lia Levi e la sua famiglia furono avvertiti in tempo e sfuggirono alla razzia del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma. Mussolini era caduto, destituito dal Gran consiglio del fascismo nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, ma la tragedia per gli ebrei italiani cominciava proprio allora.
La famiglia di Luciano Tas spese fino all'ultimo centesimo per procurarsi documenti falsi e corrompere le guardie confinarie fasciste nella fuga verso la Svizzera. Tutti i beni mobili e immobili appartenenti agli ebrei furono confiscati. Nelle città della Repubblica sociale le spoliazioni non si fermarono neppure davanti agli oggetti di uso domestico: il mobilio, gli attrezzi da cucina, la biancheria personale, persino i vasi da notte furono requisiti.
Ambiguità della Chiesa. Ufficialmente la Chiesa tacque, pur appoggiando l'opera dei religiosi a favore degli ebrei. Ma non rinunciò del tutto alle sue posizioni. Quando il governo Badoglio decise di abolire le leggi razziali, un incaricato del Vaticano, padre Pietro Tacchi-Venturi, comunicò al maresciallo d'Italia che la legislazione razziale "secondo i principi e le tradizioni della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate (quelle sui convertiti e i matrimoni misti) ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma".
Questo articolo è tratto da Focus Storia. Perché non ti abboni?