Pochi Premi Nobel tra gli ex studenti, quasi nessuno tra gli insegnanti, un ridotto numero di ricercatori che viene citato nelle pubblicazioni scientifiche: secondo la Shanghai Jiao Tong University, che stila ogni anno la classifica delle migliori università del mondo, sono queste le principali motivazioni che relegano gli atenei italiani in fondo alla graduatoria, tra il 150° e il 200° posto.
Un risultato non certo brillante e che di sicuro non rende giustizia al nostro sistema accademico.
La controclassifica. Proprio per questo Giuseppe de Nicolao, professore di Ingegneria all’Università di Pavia, ha provato a stilare nuovamente questa classifica aggiungendo un ulteriore parametro, cioè l’efficacia della spesa di ogni singolo ateneo.
De Nicolao ha diviso i costi di gestione di ogni istituto (cioè quanto costa farlo funzionare) per il punteggio ottenuto nella graduatoria di Shanghai. E… sorpresa, le prime posizioni di questa nuova classifica, pubblicata qualche giorno fa su Roars, sono occupate da università italiane: prima la Scuola Normale Superiore di Pisa, poi l’Università di Ferrara, Trieste e Milano Bicocca.
Come dire: italians do it better e riescono a utilizzare meglio dei concorrenti stranieri i, pochi, fondi destinati all’Università.
Fondi in fondo. Basti pensare che Harvard ha disposizione per circa 20.000 studenti gli stessi fondi che nel nostro paese devono soddisfare le esigenze di un milione e mezzo di aspiranti dottori.
Insomma, nei nostri atenei si riesce a fare tanto, con poco. Pensate dove potremmo arrivare se la spesa pubblica italiana per l’Università non fosse, rispetto al PIL, la penultima a livello Europeo.
Spiega lo stesso De Nicolao alla fine della sua analisi (che vale la pena leggere completamente qui):
Questo esercizio pedagogico, una specie di reductio ad absurdum, non ha pretese di scientificità, perché poggia sui punteggi pseudoscientifici della classifica ARWU. Ciò nonostante, offre degli insegnamenti a chi si accanisce a credere alle classifiche degli atenei:
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è sufficiente tener conto di un criterio importante che è stato sempre ignorato (le spese) per ribaltare le classifiche;
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non si possono confrontare gli atenei italiani con le “World Class Universities”, senza mettere a confronto le risorse finanziarie;
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persino una classifica pseudoscientifica come la ARWU più che testimoniare il ritardo e l’irrilevanza degli atenei italiani, finisce per confermare quello che dicono le statistiche bibliometriche, ovvero che il sistema universitario italiano, pur sottofinanziato, nel suo complesso non è meno efficiente di quelli delle maggiori nazioni straniere.