Petaloso suona bene, è una parola formalmente corretta, ma nel vocabolario italiano non esiste. Per ora.
L'ha inventata un bambino che frequenta la terza elementare alla scuola Marchesi di Copparo, in provincia di Ferrara. Si chiama Matteo e alla domanda "«Come definiresti un fiore?» ha risposto: «petaloso!».
La maestra è rimasta colpita dalla bellezza della nuova parola - per quanto inesistente - e l'ha inviata all'Accademia della Crusca che ha risposto con una rigorosa e affettuosa lettera: «Caro Matteo – scrive Maria Cristina Torchia, della redazione Consulenza linguistica – la parola che hai inventato è una parola ben formata e potrebbe essere usata in italiano come sono usate parole formate nello stesso modo». Alcuni esempi? Peloso (pelo + oso) o coraggioso (coraggio + oso).
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Qualche settimana fa, durante un lavoro sugli aggettivi, un mio alunno ha scritto di un fiore che era "petaloso". La...
Posted by Margherita Aurora on Tuesday, February 23, 2016
«La tua parola è bella e chiara», continua la Crusca che spiega come fa una parola ad entrare nel vocabolario. «Bisogna che la parola nuova non sia conosciuta e usata solo da chi l’ha inventata, ma che la usino tante persone e tante persone la capiscano. Se riuscirai a diffondere la tua parola fra tante persone e tante persone in Italia cominceranno a scrivere e dire “Com’è petaloso questo fiore!” o, come suggerisci tu, “le margherite sono fiori petalosi, mentre i papaveri non sono molto petalosi”, ecco, allora petaloso sarà diventata una parola dell’italiano, perché gli italiani la conoscono e la usano».
Ma Come si evolve una lingua? Le parole, colonne della nostra lingua, sono in continua evoluzione: nuovi termini nascono, altri assumono diversi usi o sono rilanciati. L’italiano, così, si trasforma seguendo il costume, la cronaca, la tv, le tecnologie… «Il lessico si arricchisce di continuo e i neologismi raccontano la società che li genera» spiega Nicoletta Maraschio, docente di storia della lingua italiana all’Università di Firenze e prima donna a guidare l’Accademia della Crusca dal 2008 al 2014.
L’esigenza di nuove parole può nascere per definire nuovi oggetti, concetti, mode. Quali sono le fonti da cui sgorgano più neologismi? Innanzitutto, le nuove tecnologie: computer, Internet, telefonini. Parole come blog, social network, smartphone si sono consolidate nel linguaggio quotidiano per indicare nuovi oggetti, servizi e fenomeni.
Per il bisogno di indicare nuove azioni, sono stati creati verbi: così contrassegnare con un tag, una parola chiave, diventa taggare; un messaggio (post) si può postare in uno spazio sul Web. Altre parole diventano di moda: come evento, usato dai ragazzi per definire qualsiasi genere di appuntamento copiando l’utilizzo fatto su Facebook.
Veline. Anche dalla tv arrivano parole. Come tronista, nato dalla trasmissione Uomini e donne ed entrato nel dizionario a indicare chi, in uno show, sta al centro dell’attenzione (o, più genericamente, chi cerca di sfondare pur senza particolari qualità professionali). L’antesignana è velina, ormai sinonimo di soubrette sexy: era nata per indicare le vallette del programma Striscia la notizia. I termini vengono anche dalla pubblicità. Come videofonino, lanciato dalla campagna della compagnia “3”. Ma il nostro bagaglio linguistico è in continua evoluzione anche grazie ai giornali, che per stare al passo con la cronaca si inventano e diffondono parole per poter descrivere meglio quello che accade: uno dei migliori esempi è badante, che ha definito un lavoro tra i più richiesti in Italia. Anche la politica è prolifica: si va da no global a neocon (abbreviazione da neoconservatori).
Rubata al latino è par condicio, voce diffusa per indicare la parità di trattamento nella comunicazione, mentre dal dialetto napoletano arriva inciucio, che ha cambiato il suo significato da pettegolezzo ad accordo sottobanco.
Come nascono le nuove parole? Molti termini sono tratti o derivati da altre lingue, l’inglese soprattutto: da default a feedback. Si possono comporre termini o aggiungere prefissi a parole che già esistevano, come in antipirateria; pensiamo a tutti i termini che usano cyber per indicare fenomeni legati alla Rete (cyberterrorismo, cyberbullismo…). O si può cambiare la categoria grammaticale: è il caso dei participi presenti che diventano sostantivi come badante e utente. Poi c’è lo spostamento di significato di una parola già esistente: il più conosciuto sciuto è il verbo navigare, preso dal linguaggio informatico per definire l’uso del Web.
Dv 6 t asp. Non solo. C’è un vero nuovo linguaggio, quello degli sms e delle chat, dove la k ha preso il posto del “ch”, il 6 quello della seconda persona del presente del verbo essere. Le vocali scompaiono. Non tutte, ma quasi: come diventa “cm”, tutto è “tt”, “qnd” è quando, comunque è “cmq”, “grz” per grazie. Sono evitate maiuscole, punteggiatura, accenti. Così la frase “Dove sei? Ti aspetto” diventa “Dv 6 t asp”. Qualcuno storce il naso. Eppure, «l’italiano degli sms è un gergo molto articolato.
Scrivere un sms aumenta l’alfabetizzazione, avvicina alla lettura, alla scrittura e invita alla sintesi. Le abbreviazioni non sono un problema: sono sempre esistite, si trovano persino nei manoscritti medioevali » sottolinea Nicoletta Maraschio. «Ed è probabile che qualche termine potrà traghettare nell’italiano corrente, perché, come tutte le lingue vive, è aperto e in continua mutazione, quindi esposto ogni momento alla contaminazione con altri linguaggi (i gerghi e i dialetti) e lingue».
Se si usa… Questa produzione a getto continuo e incontrollabile metterà a rischio la nostra lingua? «No, affatto» dice Maraschio. «Inoltre, non tutti i termini nuovi entrano a far parte della lingua nazionale. In molti casi si tratta di parole nate da una moda del momento - in questo caso, si parla di occasionalismo - come succede a molte di quelle gergali. Ci sono buone probabilità che facciano ingresso nell’italiano se invece rispondono a due criteri linguistici: la funzionalità e la frequenza d’uso ». Per esempio cmq al posto di comunque è “funzionale” perché permette di risparmiare tempo. E se uscirà dall’ambito specialistico, quello degli sms, ed entrerà nel lessico d’uso, grazie alla frequenza con cui il termine è utilizzato, potrà in futuro sostituire l’attuale avverbio.
Il passaggio non è immediato, però. Il neologismo trascorre un periodo chiamato “in oscillazione d’uso” tra l’ambito dove è nato, per esempio il gergo, e la lingua parlata e scritta da tutti. Se ha frequenza d’uso, cioè se è impiegato in più ambiti, avviene l’ufficializzazione. È necessario trovarlo nei più importanti quotidiani nazionali, o nei documenti scritti ufficiali, come in atti pubblici dell’amministrazione. «È il criterio che adottiamo anche quando dobbiamo decidere se dare accesso a un neologismo nel vocabolario» precisa Mario Cannella, lessicografo, curatore del vocabolario Zingarelli e autore di Idee per diventare lessicografo (Zanichelli).
Non per tutte le parole il percorso è così semplice. Alcune assumono diverse forme strada facendo. «Per gli studiosi si chiama adattamento. È successo con il verbo che doveva definire l’uso dello scanner: è diventato scannerizzare e scansionare e i due termini hanno oscillato per un po’. Alla fine si è consolidato scannerizzare, con maggiore “frequenza d’uso”» aggiunge Maraschio.
Al bando. Inoltre, bisogna tenere conto dei registri linguistici, da quello alto a quello colloquiale. La nostra è una lingua ricca che ci permette di esprimerci in modi diversi al bar o a un convegno. «Quindi “cmq”, “asp” o “k” possono rimanere in un ambito colloquiale, pur essendo molto diffusi.
Oppure un neologismo come ulissismo, che significa andare oltre i propri limiti, trovato diverse volte nelle pagine di cultura dei quotidiani più importanti, può restare nel linguaggio colto» aggiunge Cannella.
In passato non è sempre stato così. Sono state fatte guerre contro i neologismi, avversati da puristi che non volevano cambiare la tradizione. Nell’800 erano bandite parole come rendiconto o escursione, ora nell’italiano corrente scritto e parlato. Si possono trovare in testi come Il lessico dell’infima e corrotta italianità di Pietro Fanfani e Costantino Arlia, del 1877.
La linguistica attuale, invece, ha il problema del salvataggio. La Zanichelli, editore del dizionario Zingarelli, ha lanciato una campagna per la tutela di alcune parole: sul vocabolario del 2011 sono segnalate 2.900 “parole da salvare”, come disdoro scalzato da disonore, ubbìa da fisima, frigidaire da frigorifero e inane da inutile. «Cadranno in disuso, impoverendo e uniformando la lingua. E di conseguenza anche il pensiero» dice Cannella. «Così si perdono sfumature nel racconto della realtà. Perché accade? Per comodità e fretta: basti pensare alla frequenza con cui si usa la parola cosa, che ha sostituito quasi l’intero vocabolario».