Multare chi, in Italia, usa troppe parole inglesi? Ha fatto scalpore una proposta di legge che vieterebbe l'uso di termini inglesi in certi ambiti, come la comunicazione pubblica, nei contratti di lavoro o per specificare i ruoli in azienda, in nome della difesa della lingua italiana.
Il problema è che evitare i termini di origine inglese potrebbe essere una complicatissima corsa a ostacoli. Anche perché l'uso è iniziato secoli fa come dimostra la questa carrellata storica.
qualcuno l'ha chiamato "NEOITALIANO". Nel 1964, Pier Paolo Pasolini paventava la nascita di un nuovo italiano, il cosiddetto neoitaliano, basato sulla semplificazione sintattica, la perdita di molti riferimenti latini e l'uso di molti termini tecnologici. Era il frutto – secondo lui – dell'egemonia della cultura borghese e industriale del Nord Italia, dove avevano sede le grandi fabbriche: l'italiano infarcito di anglicismi (marketing, target ecc) sarebbe secondo alcuni studiosi un'evoluzione del neoitaliano di Pasolini. Ma l'inglese aveva fatto capolino nella nostra lingua molto prima.
Già nel Medioevo, infatti, qualche parola inglese era entrata nell'uso in seguito ai rapporti commerciali con l'Inghilterra: si cominciò a parlare di "sterlini" (1211) e di "costuma" (ovvero "dogana" dall'inglese customs). Durante il Rinascimento, poi, si cominciò a usare il termine "alto tradimento" (calco di high treason) e parlamento, voci relative alla vita politica e alla società inglese che erano spuntate nelle relazioni di ambasciatori e viaggiatori o all'interno di opere storiche.
COME UNA VALANGA. Dal Settecento, l'inglese divenne sempre più presente: tutto il mondo guardava con ammirazione Gran Bretagna e Stati Uniti, complici da una parte la rivoluzione industriale, le nuove istituzioni parlamentari nate dopo la guerra civile del 1642, il potente impero coloniale, e dall'altra il mito della rivoluzione americana e della nuova nazione indipendente. E allora ecco entrare nell'uso una vasta serie di parole ("club", "pamphlet", "humour", per citarne alcune).
Nell'Ottocento l'"invasione" fu sempre più capillare e si cominciò a parlare di "leader", "meeting", "premier", ma anche di "dandy", "fashion", "festival" e nei menu dei ristoranti comparvero voci come "brandy", "gin", "whisky"; "rostbif" (adattamento di roast-beef), "curry"…
Piano piano interi settori del lessico furono contaminati. Tra '800 e '900, in economia, arrivarono "boom", "business", "check", "copyright", "export", "manager", "marketing", "stock"; nei trasporti "cargo", "ferry-boat", "yacht", "bus", "clacson"; al cinema, "cast", "film", "set"; nello sport arrivarono "goal", "cross", "dribbling", "offside" (poi anche fuorigioco), "tennis", "ring" del pugilato. Per non parlare di "barman", "boss", "boy-scout", "camping", "gangster", "killer", "shopping", "snob"…
Il quotidiano romano La Tribuna bandì un concorso con un premio di mille lire per chi avesse trovato la traduzione migliore per queste parole: dancing (vinse "sala da ballo"), taxi ("tassì"), bar, bazar, cocktail. Alcune parole comunque persero il confronto: tassellato al posto di parquet, obbligata per slalom, mescita invece di bar, uovo scottato per uovo alla o à la coque, fin di pasto invece di dessert. Le insegne che usavano termini stranieri (hotel e garage, per esempio) non furono vietate, ma le attività dovevano pagare tasse 20 volte maggiorate rispetto a chi passava a insegne in italiano.
Si può fare? Negli ultimi decenni alcuni lessici sono stati particolarmente permeabili, come quello di cinema e televisione ("cult", "news", "zapping"), di pubblicità e marketing ("sponsor", "spot", "testimonial"), delle discipline scientifiche, del settore economico-finanziario e quello dell'informatica. Inoltre tanti termini divengono di uso comune perché magari ricorrono in uno slogan, in un film, in una notizia televisiva. Davvero riusciremmo a finire una frase senza usare un parola straniera? Mission impossible…