Centodiciotto gradini su una scala con ponteggio, di quelle che si usano nei cantieri edilizi, tra raffiche di vento che fanno cigolare i piloni d'acciaio. Quando arriviamo in cima, le barche ormeggiate nel porto di Dún Laoghaire, poco fuori Dublino, sembrano mattoncini di Lego: tra noi e l'acqua ci sono 27 metri, l'equivalente di un palazzo di otto piani.
Siamo in cima alla piattaforma dei tuffi della Red Bull Cliff Diving World Series 2019, una competizione sportiva tutta adrenalina, che vede i campioni di high diving lanciarsi da altezze 2-3 volte superiori quelle olimpiche, nelle località più scenografiche del mondo. L'11 e 12 maggio abbiamo seguito la seconda tappa della gara, in Irlanda. Una sfida nella sfida, perché ad accogliere gli atleti c'erano acque di 11 °C, un grado sotto la temperatura regolamentare: uno shock tale, per il corpo, che alcuni tuffatori hanno scelto di effettuare solo le figure meno rischiose del loro programma.
Alla vigilia della terza tappa della manifestazione, che si terrà il 2 giugno a Polignano a Mare (Bari), vi raccontiamo i retroscena scientifici di questa disciplina, che scomoda la fisica e le neuroscienze, tra accelerazioni degne di viaggi spaziali e tecniche per tenere a bada la paura.
Non per tutti. A questi livelli, il cliff diving è una disciplina per pochi: nel mondo sono una cinquantina gli atleti che lo praticano da professionisti. Ci si tuffa da 27 metri (per gli uomini: per le donne la piattaforma è da 21), si affrontano avvitamenti e salti mortali per riempire 3 secondi di caduta libera; finché, a 85 km orari di velocità, si arriva all'impatto con l'acqua, 9 volte più violento rispetto a quello che segue un tuffo dalla piattaforma di 10 metri.
Dritti contro un muro. I tuffatori bucano l'acqua con una accelerazione di 5 g, pari a quella di alcune fasi dei lanci spaziali. Per non fare la fine dell'anguria di questo video, l'ingresso è rigorosamente in punta di piedi: il corpo dritto come un fuso, con dita, ginocchia, anche, perfettamente allineate. Il più alto rischio di lesioni avviene proprio in fase di atterraggio, quando le gambe hanno già toccato l'acqua e iniziato a rallentare, mentre il tronco è ancora lanciato ancora a piena velocità.
L'impatto si può reggere soltanto mantenendo una piena tensione muscolare, ma non appena tocca l'acqua, che deve essere profonda almeno 5 metri, il tuffatore prende a nuotare attivamente, per evitare traumi da compressione (il testo prosegue sotto al video).
Mare piatto? Meglio un po' mosso. Le caratteristiche dell'acqua hanno effetto sullo schianto: quelle molto fredde aumentano lo stress percepito dal corpo, quelle salate e ferme sono più dense e "dure": il mare irlandese sotto i nostri piedi offre un bel mix di tutti i tratti meno auspicabili.
Le onde addolciscono l'ingresso, perché muovono la superficie: quando mancano, un motoscafo crea un po' di schizzi per rompere l'acqua nel punto di ingresso dell'atleta, mentre una squadra di sub vigila sull'incolumità di chi è in gara.
Mantenere la bussola. Allo stesso tempo, un mare agitato costringe a un più attento calcolo dei tempi - se l'ingresso avviene sulla cresta dell'onda, il tuffo termina prima. Non sono il vuoto, né il vento a spaventare i tuffatori: il timore è, piuttosto, quello di perdersi nell'aria, finire senza punti di riferimento. Per controllare il numero di figure eseguite, i diver contano quante volte, nelle loro evoluzioni, si ritrovano con lo sguardo rivolto verso l'acqua: basta una spinta troppo energica per compiere un giro di troppo, e non avere il tempo di raddrizzarsi alla fine.
Orlando Duque, 43enne colombiano veterano di questo sport, è il solo ad affrontare la prima parte del tuffo a occhi chiusi: «È una tecnica di vecchia scuola - ci racconta - faccio un sacco di ripetizioni per avere la percezione di dove mi trovo, e poi, nella seconda parte del tuffo apro gli occhi e mi preparo all'impatto con l'acqua. Il punto è fare il possibile per capire ogni volta dove si trovano i riferimenti. Anche se ci si tuffa ad occhi aperti, infatti, cambiamo continuamente località, ed è molto difficile riuscire ad adattarsi velocemente. Per lo meno, con gli occhi chiusi si mantengono alcuni standard!».
Compagna costante. Per far fronte alla paura, «cerco di apprendere più dettagli possibili di ciò che mi spaventa. Io temo in particolare l'impatto con l'acqua, quindi ho bisogno di sapere esattamente a quale velocità cadrò, quanto sarà violento l'urto. Devo apprendere tutto sui dettagli che posso controllare: più cose so, più facilmente raggiungo una condizione di pace mentale. Quando arrivo sulla pedana, faccio due passi indietro e rivivo mentalmente tutto quello che ho imparato. Ce la posso fare, mi sono allenato, sono forte, l'ho già fatto prima. E poi non è sempre una questione di altezza: sei lì, davanti a una folla di persone, con il rumore delle onde che si infrangono sugli scogli, in un pomeriggio bellissimo: è tutto così entusiasmante, intenso, che l'altezza è solo una delle componenti, e non sempre la più importante».
A piccoli segmenti. Ci si tuffa da ponti, scogliere, in cenote messicani o su moli cittadini, da rocce vulcaniche e da balconi, e se il continuo cambio di location richiede una certa dose di capacità di adattamento, anche l'allenamento contempla una parte di improvvisazione.
Lo stress dell'impatto su organi e muscolatura è tale, che per tutto l'anno ci si allena "a pezzi". «Dividiamo il tuffo in due parti, i primi 10 metri e i secondi 10, e al momento della gara uniamo le due cose» racconta la 23enne americana Eleanor Townsend Smart, che alla carriera di tuffatrice ha abbinato un progetto contro l'inquinamento da plastica.
Per rafforzare il fisico ci si allena in palestra, si fa corsa, ma le occasioni per provare il tuffo per intero sono - anche per la carenza di piattaforme sicure permanenti - limitate. Soltanto l'esperienza permette di arrivare lì sopra e unire tutte quelle ore di allenamento in un salto spettacolare, in barba alle acque ghiacciate, alle onde e al vento, e al timore di sbagliare.