C’era una volta il poker. Quello che si giocava ogni tanto con gli amici, quasi di nascosto, senza dirlo troppo in giro. C’era una volta anche “l’altro” poker. Quello che si giocava, secondo l’immaginario comune, in locali dall’atmosfera equivoca, tra personaggi dall’aria equivoca, dove spesso si alzava un po’ troppo il gomito, e qualche volta finiva in rissa, o peggio. Bene, non ci sono più, né l’uno né l’altro.
Il gioco di carte forse più diffuso del mondo è diventato un fenomeno di massa, che attira giovani (maggiorenni) e vecchi, uomini e donne. I luoghi dove si gioca non sono più le sale ambigue nel retro dei saloon di periferia, ma le immense sale scintillanti di tutti i casinò del mondo. Oppure le sale virtuali delle poker room, i siti online dedicati a questo gioco, aperte 24 ore su 24.
Far West
Questo popolare gioco di carte, tuttavia, ha quasi due secoli di vita. Come molti altri giochi di carte non si sa esattamente chi l’abbia inventato, ma di certo nella sua versione moderna è apparso verso l’inizio del XIX secolo nel mitico West americano, in particolare sui battelli a vapore che risalivano lentamente il Mississippi, e che erano dei veri casinò galleggianti.
La prima traccia concreta risale alle memorie scritte dall’attore inglese Joe Cowell, che visse a lungo negli Usa: riporta che il gioco era praticato a New Orleans nel 1829, con un mazzo di 20 carte tra 4 giocatori al massimo.
Origini persiane
Secondo alcuni storici del gioco, l’antenato del poker era il persiano âs nas, insegnato probabilmente ai coloni francesi di New Orleans da marinai venuti dalla Persia o, secondo un’altra versione, appreso da francesi trapiantati in Usa che si erano recati come militari nella zona della Persia.
Nell’incertezza è avvolta anche l’origine del termine poker: in inglese, to poke significa spingere, attizzare, per cui poker potrebbe essere interpretato come attizzatoio, nel significato che il gioco induce a “spingere” bluffando.
Tra legalità e delinquenza
In ogni caso, il poker si diffonde negli Usa, evolvendo le proprie regole, differenziandosi in mille specialità differenti ma rimanendo in un ambito al confine della legalità (in alcune situazioni nell’illegalità dichiarata) e confinato a una cerchia di personaggi da leggenda, che girano per la nazione in cerca di polli da spennare, spesso con una pistola in tasca per difendersi da chi non prendeva bene le sconfitte.
Gioco da contrabbandieri
Doyle Brunson, leggenda del poker classe 1933 ancora oggi sulla breccia, racconta per esempio di quando un contrabbandiere del West Virginia, che stava perdendo con lui 50.000 dollari, tirò fuori dalla tasca una pistola, la posò sul tavolo e lo invitò a smetterla di vincere i suoi soldi. O delle mille rapine subite negli anni Cinquanta e Sessanta, nonché dei pestaggi, delle minacce e addirittura dei morti ammazzati visti intorno al tavolo da poker.
Fu proprio Brunson, insieme ad altri giocatori texani, a portare a Las Vegas la specialità del Texas hold’em verso la fine degli Anni ’60. Un po’ alla volta questa specialità prese piede, fino a sbarcare in Europa e nel resto del mondo una quindicina di anni fa, grazie anche a film come Rounders (1998), con Matt Damon. Il successo planetario del poker hold’em è dipeso probabilmente dal fatto che, almeno nella versione a torneo, permette di prevedere in anticipo la cifra da impegnare, così che non si rischia di perdere più di quanto ci si possa permettere.
E quando il numero di giocatori di un torneo cresce molto, si può arrivare a montepremi importanti anche se la quota di iscrizione è bassa.
L'era del digitale
Poi sono arrivati Internet e Chris Moneymaker, e tutto è cambiato. Chi è Moneymaker? Un perfetto sconosciuto che nel 2003, spendendo solo 40 dollari per qualificarsi, vinse a Las Vegas il torneo principale delle World Series of Poker, in pratica il campionato del mondo, portandosi a casa 2,5 milioni di dollari. D’altra parte il suo destino era segnato dal cognome: Moneymaker, “quello che fa i soldi”. Da allora c’è stato il boom, perché tutti hanno pensato che avrebbero potuto farcela: la ricchezza era a portata di mano.
Oggi non ci sono solo i casinò “terrestri”; ci si può giocare una fortuna 24 ore su 24 online, o perdere tutta la pensione alle slot machine del bar sotto casa.
Non a caso, il gioco d’azzardo patologico, un disturbo comportamentale catalogato fra quelli ossessivo-
compulsivi, è diventato più evidente, trasformandosi in un problema sanitario di grande rilevanza.
L’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa calcola che 3 milioni di italiani siano a rischio di sviluppare una dipendenza dal gioco. E il rapporto Gioco & Giovani di Nomisma ha rilevato che ben il 5% dei giovani 16-19enni è “in situazione di criticità”.
Tutti abbienti? No, l’industria del gioco coinvolge soprattutto le fasce più deboli: secondo i dati Eurispes il 47% degli indigenti, il 56% degli appartenenti al ceto medio-basso, il 66% dei disoccupati.
I sintomi della dipendenza sono facilmente identificabili: il giocatore aumenta sempre più la “dose” per ottenere lo stesso livello di eccitazione.
Se tenta di smettere sviluppa i sintomi dell’astinenza: nervosismo, ansia, tremori.
L’unico rimedio è rivolgersi al Sert (servizio per le tossicopendenze) o ai Serd (servizi per le dipendenze) di una qualsiasi Asl.
Amelia Beltramini
Il mondo dei giocatori professionisti
Ma la realtà non è affatto così: il professionista del poker oggi è una persona estremamente quadrata. E spesso con una preparazione culturale di tutto rispetto alle spalle.
Prendiamo per esempio Alessandro Chiarato, classe 1988, uno dei membri del team di professionisti del poker di Lottomatica. È alla fine degli studi di ingegneria gestionale e le statistiche ufficiali dicono che ha vinto 140.000 dollari in premi di tornei. «Certo, all’inizio i miei genitori non vedevano molto bene che io giocassi a poker» racconta. «Ma io ho completato gli esami, e avere delle basi di matematica in questo gioco è molto utili».
Professori di matematica
Anche Maurizio Musso, un'altro professionista delle carte, la matematica la conosce. Anzi, la insegna a scuola. E ancora, Max Pescatori (che ha un bottino di vincite di oltre 3 milioni di dollari in soli tornei), anche se non ha una laurea, ha comunque un rapporto molto particolare con i calcoli: «Quando andavo a scuola per me la matematica era troppo facile, avevo già il pallino per i numeri» racconta.
«Io amo la matematica e la statistica, e in questo gioco servono molto. Prima mi occupavo di videogiochi e giocavo a scacchi. Quando ho capito che avevo delle qualità non comuni che mi aiutavano nel gioco mi sono trasferito a Las Vegas».
Dieta da pokerista
Come un vero atleta, Pescatori ha una linea da seguire anche riguardo alla dieta: «Subito prima di un torneo, in cui si può stare al tavolo verde anche 12 ore al giorno per diversi giorni, preferisco il pesce alla carne, e comunque la carne bianca a quella rossa. Vanno bene i carboidrati, come la pasta, ma senza condimenti pesanti. E poi frutta e verdura a volontà». L’alcol è bandito, anche in piccole dosi. Evidentemente tutto questo funziona: alle ultime World Series, Max è andato a premi in 4 tornei.
La psicologia conta?
E ancora, c’è Alessandro Pastura, un ingegnere-giocatore, che spiega: «L’approccio scientifico al poker ha tre componenti: psicologia, processi mentali e matematica-statistica. Ciascuna è importante. La psicologia per capire i propri avversari, i processi mentali per stabilire la strategia di gioco e la matematica per prendere le decisioni giuste».
Non è un caso quindi che molti pro abbiano alle spalle una formazione scientifica, tradizionale o personale. E che diversi abbiano un passato di giocatori di scacchi, backgammon o magic, un gioco di carte collezionabili dove la strategia serve a farsi largo tra incantesimi e stregonerie.
Poker online
L’altro fattore che ha reso popolare in tutto il mondo il poker nella sua versione Texas Hold’em (letteralmente, “prendi tutto”, nel senso delle fiche degli avversari) è stata la diffusione che questo “sport” (per il quale si parla di “poker sportivo”) ha avuto sul web. La prima partita a soldi svolta online è stata giocata nel 1998; in Italia invece il primo torneo legale sul web è arrivato sul sito di Gioco Digitale il 2 settembre 2008. Da allora, nel nostro Paese 2,6 milioni di italiani hanno giocato almeno una volta a poker online.
Lavoro stressante
Ma non vogliamo illudere nessuno: fare il professionista del poker è stressante e molto meno divertente di quanto si creda. Chi vive di poker gioca prevalentemente su Internet, molte ore al giorno (ancora di più di notte) e su decine di tavoli contemporaneamente. Occorre mantenere una lucidità straordinaria e saper prendere al volo decisioni dettate da precise regole matematiche. Non a caso, il poker texano è stato oggetto di studi che coinvolgono la teoria dei giochi e l’intelligenza artificiale.
E come testimonial, le star del cinema
Questo non significa che non si possa considerare il poker un passatempo. L’importante è non farsi prendere la mano. Anche se a volte è difficile, perché il business si è allargato: i siti legali oggi sono decine (attenzione, si può giocare solo su quelli il cui dominio finisce per .it e che hanno una regolare licenza dell’Aams, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli) e le pubblicità televisive ci bombardano. Intanto, molti vip si sono dati al poker, sia come testimonial sia come semplici giocatori; da Ben Affleck al già citato Matt Damon, da George Clooney a Robbie Williams, fino ai nostrani Buffon, Magnini e Totti, solo per citarne alcuni. Alle ultime World Series a Las Vegas si è visto ai tavoli anche Gerard Piqué, difensore del Barcellona.
L'autore di questo articolo è Gianluca Ranzini, astrofisico, giornalista di Focus e... pokerista della domenica. Recentemente lo abbiamo spedito alle World Series of Poker che stanno al Poker come Wimbledon sta al tennis. Non ha vinto molto (è stato fatto fuori in poche ore). Qui c'è il suo racconto dell'esperienza.
La molla competitiva
Si tratta solo di una moda? Non la pensano così né i giocatori professionisti né i gestori delle poker room. I giochi fanno parte dell’indole umana, e il poker è uno di quelli che meglio incarna il desiderio di competizione. Conclude Marina D’Agati, ricercatrice della cattedra di sociologia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino ed esperta del gioco d’azzardo dal punto di vista sociale: «Nelle mie ricerche e interviste, ho rilevato che spesso la motivazione economica, cioè quella di guadagnare denaro, conta in minima parte.
Brivido pericoloso
Contano di più altre motivazioni: spesso si mette alla prova la propria abilità e questo viene fatto sia in giochi aleatori sia in quelli invece dove l’abilità conta veramente, anche se in questo caso di solito si sovrastima la propria bravura. In altri casi la motivazione può essere quella di socializzazione: basti pensare a chi passa intere giornate nelle sale scommesse. C’è anche il brivido di scoprire quale sarà l’esito della sfida: molti giocatori di roulette mi hanno raccontato le loro esperienze al tavolo di gioco con grande enfasi. Quindi nella mia ricerca ho rilevato che il denaro è solo un mezzo, ma non il fine della scommessa».
Ma intanto il giocatore della domenica pensa a Chris Moneymaker. E sogna.