Un tempo, nelle loro opere, gli artisti rappresentavano santi, imperatori e paesaggi di campagna, ma poi l'arte cominciò a trarre ispirazione da attori, fumetti, cartelloni pubblicitari e persino da prodotti dei supermercati. Al mondo in bianco e nero della prima metà del XX secolo se ne contrappose uno nuovo, sgargiante e colorato, aspirante simbolo di un benessere che sembrava essere alla portata di tutti. Negli USA, sulle macerie morali e umane della Seconda guerra mondiale, alla fine degli anni Cinquanta prese forma una società che vide nella produzione di massa dei beni di consumo e nelle moderne tecnologie domestiche un evidente segnale di progresso.
La filosofia alla base di un'evoluzione culturale ai suoi primi passi vide anche il tentativo di trasformare in arte quella stessa società, qualche volta con intenti ironici e provocatori, attraverso immagini replicate, l'utilizzo di colori brillanti e seducenti, giochi linguistici e accostamenti tra immagini e parole. Nacque così la Pop Art, abbreviazione di popular art, intesa però non come arte per il popolo o del popolo, ma come arte di massa, cioè prodotta in serie - ma dai prezzi stellari, con opere battute all'asta anche per molte decine di milioni di dollari. Uno dei temi favoriti della nuova corrente fu il cibo: restano celebri la bottiglietta di Coca Cola e le scatole dei Kellogg's Cornflakes.


Perché in una società come quella statunitense fu proprio il cibo stesso il primo elemento di consumo, ma anche di abuso e di enfatizzazione. I prodotti alimentari, così come li proponevano le riviste, le pubblicità e la televisione, non erano decantati per il loro sapore o per il loro valore nutrizionale, ma, piuttosto, per le dimensioni, i colori, le confezioni...


Il contenuto passava in secondo piano poiché nella società moderna non si mangiava per "vivere", ma per "consumare". E la Pop Art è stata proprio un'arte di consumo, e in quanto tale doveva essere consumata come un qualsiasi altro prodotto di massa. Tra i maggiori rappresentanti si ricordano Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, David Hockney, Jeff Koons, Jasper Johns e Robert Rauschenberg; ma il maestro osannato e idolatrato fu senza dubbio Andy Warhol, colui che trasformò l'opera d'arte da oggetto unico in prodotto di serie, portandolo dagli scaffali dei supermercati alle mostre d'arte, come nelle famosissime riproduzioni dei barattoli di zuppa di pomodoro Campbell, con le quali sanciva che il linguaggio della pubblicità era diventato la nuova arte e che i gusti del pubblico si erano ad esso uniformati e standardizzati.
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Per approfondire:
Osterwold T., Pop Art, Taschen, 2015;
Sooke A., Pop Art. Una storia a colori, Piccola Biblioteca Einaudi, 2016;
Warhol A., La filosofia di Andy Warhol, trad. italiana a cura di Caterina Medici, Feltrinelli Editore, 2016.
L'autrice - Giovanna Benedetta Puggioni, giornalista e storica dell'arte, ha all'attivo pubblicazioni di carattere divulgativo e storico-artistico e ha svolto incarichi di collaborazione per attività inerenti il patrimonio artistico e culturale della città di Cagliari.