Era il 27 giugno del 1980 e in 100 mila gremivano a Milano lo stadio di San Siro. Il tam tam aveva fatto arrivare gente da tutt'Italia. Non per una partita di calcio decisiva e nemmeno per assistere allo show di una qualunque star della musica rock. Il richiamo era stato più profondo e irresistibile. Entrava in scena Bob Marley, finalmente in Italia, con la sua canzone di impegno sociale, la musica militante contro tutti i razzismi, le diseguaglianze e le esclusioni. Quel giorno anche chi scrive era lì.
Erano tempi in cui le critiche al sistema (che lui definiva il Babylon system) scritte, parlate o cantate potevano ancora dare un certo fastidio ai potenti, chiamati "capitalisti", "colonialisti", "imperialisti". Giovani e meno giovani , sotto la bandiera del reggae, vivevano il sogno egualitario attraverso la musica dell'impegno. Qualcuno definì il concerto di San Siro la Woodstock italiana (dal celebre happening di musica rock che si tenne nell'omonima cittadina Usa nel 1969), ma fu soprattutto un grande rito "partecipativo" di massa: assiepati su due anelli (il terzo ancora non c'era) e sul prato, tantissimi a ballare, come parte di un tutto di vibrazioni positive (Positive Vibrations... appunto, come il titolo di una sua celebre canzone). In apertura, nel caldo pomeriggio, cantarono Roberto Ciotti e Pino Daniele, ancora due esordienti.
La sera l'ospite tanto atteso fece la sua preziosa narrazione di fatti e vissuti personali attraverso canzoni come One Love (scritta durante la guerra civile in Giamaica), Survival (sulla tratta degli schiavi e la voglia di ritornare in Africa dei loro discendenti), Jammin e No Woman No Cry. In quella notte magica si accesero migliaia di accendini sugli spalti dello stadio di San Siro (ancora non c'erano i cellulari) ognuno in segno d'impegno e partecipazione.
Bob Marley morì l'anno dopo per un male incurabile. Per i 40 anni dalla scomparsa del cantautore giamaicano, il critico musicale Gaetano Crupi ha pubblicato una biografia accurata sul personaggio, intitolata Don't Give up the Fight ("non lasciare la lotta", da una strofa del celebre pezzo Get up Stand up).
«Bob Marley è stato il musicista che più di tutti si è impegnato socialmente», racconta Crupi: «Ha diffuso in Europa, America e Africa, fino all'Asia e all'Oceania messaggi universali di pace e di giustizia.»Nato come musicista nel circuito dei sound system, impianti "volanti" che venivano portati nelle strade fra la gente, Marley coltivò subito anche il suo lato spirituale.
Aderì alla religione rastafari, fede cristiana locale della Giamaica che considerava l'Etiopia come la terra promessa dei neri liberati dalla schiavitù e dalle altre forme di sfruttamento e discriminazione.
«Ferito in un attentato, nel dicembre del 1976, auto esiliato a Londra per ragioni di sicurezza», ricorda Crupi, «lì scrisse e incise Exodus, che il Time definì "album del secolo". Ritornò in Giamaica nell'aprile del 1978 e dopo avere organizzato il One Love Peace Concert, riuscì a pacificare i due leader in guerra civile fra loro.» Insomma, la sua chitarra elettrica ebbe il potere di fare tacere i kalashnikov.
Poi andò in Africa, terra di origine dei suoi antenati. Sempre nel 1978 gli fu conferita, a nome di 500 milioni di africani, la Medaglia della Pace dalle Nazioni Unite. Grazie a lui il reggae è stato dichiarato dall'UNESCO "patrimonio immateriale dell'umanità".
A Milano, dove tenne il concerto più partecipato della sua carriera, aprendo per la prima volta lo stadio di San Siro alla musica, tre sezioni dell'Anpi - quelle di Crescenzago, Gratosoglio e la 10 Agosto - hanno riconosciuto Marley come "resistente" e proposto che gli venga dedicata una via della città "per essersi battuto contro il razzismo e tutti i fascismi, per la libertà e l'uguaglianza dei popoli".