L’uso metaforico del verbo scopare in accezione oscena è da ricollegarsi all’utilizzo di termini riferiti a fori e angoli per indicare l’organo sessuale femminile (per esempio, buco, pertugio, fenditura eccetera): il pene-scopa è l’attrezzo che pulisce il foro o l’angolo della donna. L’analogia è rafforzata dal carattere ritmico del movimento.
Origini antiche. Già in alcuni scrittori greci (Saffo, Anacreonte) il termine corrispondente era usato in senso equivoco.
Ciò che è strano, invece, è la ragione dello straordinario successo di scopare rispetto ad altre voci analoghe, come spazzare, nettare, ripulire e così via: il loro uso osceno è documentato (come anche quello di “scopare”) nei canti carnascialeschi toscani del XV e XVI secolo.
Una spiegazione convincente non esiste: si può soltanto osservare che la fortuna di questo verbo è piuttosto recente, e forse da collegare all’ambito romanesco.
Sonetti. Il primo a usarlo in modo sistematico sembra infatti essere stato il poeta dialettale romano Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863), che nel 1831 nei suoi Sonetti scrisse: “De tante donne che mme sò scopato...”.
C’è un modo per parlare di sesso senza risultare scurrili o essere scambiati per ginecologi? La risposta – grazie agli scrittori – arriva direttamente dalla Treccani.
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