Scuola e Università

È meglio puntare su studi scientifici?

Esperti a confronto: quali corsi è più utile frequentare? Bisogna seguire la passione per una disciplina o le statistiche sulle opportunità di lavoro?

Al momento dell'iscrizione alle scuole superiori, gran parte dei ragazzi italiani punta sulle scienze, in seconda battuta sulle lingue, mentre il classico è in frenata: si iscrivono alla più antica (e, secondo alcuni, più esigente) scuola superiore italiana appena 6 ragazzi su 100. Gli iscritti ai licei a indirizzo scientifico sono circa il 23%, ai quali si aggiunge il 31% che sceglie gli istituti tecnici a indirizzo tecnologico oppure economico. Ma è giusto che sia così? Chi vuole scommettere fin da subito su un lavoro (che presume) “sicuro”, dice di sì. Chi sottolinea che una formazione a 360° è fondamentale per riuscire in qualsiasi campo, compreso quello scientifico, ovviamente, pensa di no. Ma prima di vedere le ragioni degli uni e degli altri, è utile un’ultima considerazione: «Qualsiasi tipo di studio costa impegno e quindi fatica. L’unico modo di affrontarlo senza farlo diventare una condanna è seguire le proprie passioni» premette Francesco Dell’Oro, responsabile del Servizio orientamento del Comune di Milano. Ecco 4 punti a favore degli studi scientifici a tutti i costi e 4 contro.

a favore di studi scientifici.

1- Il più recente rapporto su quali saranno le professioni più richieste in futuro negli Usa (ma che può essere esteso a tutti i Paesi occidentali, dato che le condizioni socio-economiche sono spesso simili) parla chiaro. Secondo l’Occupational Outlook Handbook, nei prossimi 10 anni i più gettonati saranno medici, ricercatori di marketing, ingegneri (soprattutto civili) e commercialisti. Ancora più alta sarà la domanda per infermieri, operai specializzati nell’industria e nell’edilizia. Tutte qualifiche per le quali occorrono studi tecnico-scientifici.

2- «Le facoltà universitarie a numero chiuso, sia italiane che europee, strutturano i loro test più su quesiti scientifici che su quelli di cultura generale» fa notare Leonardo Tondelli, giornalista e insegnante di italiano, che ha affrontato la questione anche nel suo blog. Per questo, superare i test d’ingresso avendo un bagaglio prevalentemente umanistico non è affatto scontato. Nei Paesi industriali, del resto, il latino è una materia facoltativa scelta da pochi (2-5%) mentre da noi lo studia oltre un terzo degli iscritti alle superiori.

3- Negli Stati Uniti, molte prestigiose facoltà universitarie hanno già chiuso alcuni dei loro dipartimenti dedicati alle Lettere: a Miami non c’è più l’istituto di filosofia, all’Università dell’Iowa 14 corsi umanistici sono stati aboliti o accorpati. Perfino Princeton e Harvard stanno pensando a strategie per attirare studenti “umanistici”, che negli Usa si sono dimezzati rispetto a quarant’anni fa. Stabili invece ingegneri, medici e informatici. Una tendenza che non può lasciare indifferenti, dato che i ragazzi che cominciano oggi i loro studi superiori si inseriranno in un mondo del lavoro sempre più globale.

4- I dati degli osservatori sull’abbandono scolastico dimostrano che a dare più problemi agli studenti sono i licei (il classico e lo scientifico “tradizionale”): 3 ragazzi su 4 costretti a cambiare indirizzo provengono proprio da questo tipo di scuole. Come mai? Una buona fetta di iscritti non segue le indicazioni degli insegnanti delle medie. Lo dimostra una ricerca su un largo campione di studenti lombardi impegnati nella scelta della scuola superiore. «Ma chi consiglia a tutti i costi un liceo, magari classico, per questioni “di prestigio” pensando sia una scuola migliore, sbaglia» sottolinea Daniele Checchi, docente di Economia del lavoro all’Università degli studi di Milano e autore dello studio. «Tra i miei studenti, per esempio, ho parecchi periti e ragionieri, e se la cavano egregiamente. A mio parere gli ottimi risultati che i diplomati al classico e molti diplomati dello scientifico conseguono negli studi più “tecnici” come economia o informatica non sono dovuti tanto alla loro formazione, quanto a una “selezione” fatta a monte, dato che nei licei più duri chi “sopravvive” è bravo per forza».

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a favore di studi classici.

1- Può sembrare paradossale, ma spesso a difendere lo studio dei classici e delle cosiddette “lingue morte” sono matematici molto noti. Come Giorgio Israel, docente di Storia della matematica all’Università La Sapienza di Roma, che afferma: «L’abbandono della cultura classica sarebbe un errore clamoroso. E lo sarebbe in particolare per noi scienziati. Soprattutto oggi. L’innovazione, infatti, non si fonda su una capacità tecnica “settoriale”, ma sulla cosiddetta “scienza di base”. Le scoperte tecnologiche nascono cioè da idee teoriche e spesso filosofiche. Ecco perché considero autodistruttiva l’educazione finalizzata a una funzione. Per la società certo, ma anche per il ragazzo stesso: che farebbe per esempio un superesperto di smartphone se qualcun altro ideasse un migliore tipo di tecnologia, basata su tutt’altri meccanismi, che rendesse obsoleti gli attuali apparecchi?».

2- Dello stesso parere anche un altro matematico e fisico, Marco Bersanelli, direttore della Scuola di dottorato in Astrofisica e Fisica applicata dell’Università di Milano: «Nei miei corsi ho una piccola percentuale di diplomati nei licei classici. All’inizio sono decisamente svantaggiati perché non conoscono derivate, integrali e calcolo vettoriale. Ma poi, dopo un paio di mesi prendono il sopravvento anche sui compagni provenienti dallo scientifico. Io me lo spiego così: gli studi classici hanno dato loro un metodo e soprattutto la capacità critica necessaria per capire che cosa hanno acquisito e che cosa ancora manca loro.

Un requisito fondamentale per riuscire bene in studi complessi».

3- Torna cioè il concetto, spesso sbandierato dai fautori degli studi umanistici, di una superiore “apertura mentale” che solo un liceo classico (o almeno uno scientifico con una robusta dose di latino) può dare. In molti hanno anche tentato di spiegarlo. Il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset la individuò nell’abilità che si acquisisce esercitandosi in una traduzione, dato che per lui tradurre significava “colmare i silenzi del testo”. Insomma, visto che per interpretare un testo latino (e ancora di più greco) non basta la conoscenza del significato delle singole parole, ma serve anche capire il senso dell’intera frase (molti termini possono avere significati contraddittori), traducendo i classici il cervello si eserciterebbe a passare continuamente dall’astrazione alla sintesi.

4- «Ma c’è una ragione molto più pratica per non abbandonare gli studi umanistici. L’Italia ha un enorme patrimonio di beni culturali, archeologici o pittorici (i più conosciuti nel mondo) ma anche librari. Impossibile valorizzare queste ricchezze, e trasformarle in un “business” senza conoscerle» conclude Giorgio Israel.

9 febbraio 2014
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