Scuola e Università

La musica non rende più intelligenti. Ma aiuta a ricordare

Dimenticate l'Effetto Mozart: due nuovi esperimenti dimostrano che studiare musica non migliora il QI. Ma non è un buon motivo per smettere di insegnarla.

Imparare a suonare uno strumento aiuta i bambini a sviluppare creatività, disciplina e autostima. Aumenta esponenzialmente il loro bagaglio culturale, ma non li rende più intelligenti: a scardinare uno dei miti più facilmente associati all'apprendimento della musica, quello secondo cui studiarla migliorerebbe le capacità cognitive, sono due studi condotti da Samuel Mehr, ricercatore dell'Università di Harvard (USA), appena pubblicati su Plos One.

Musica in 3D: le sculture musicali di Martin Klimas
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L'idea che ascoltare o studiare musica, specialmente quella classica, possa rendere più intelligenti ha origine da uno studio pubblicato su Nature sul 1993: secondo la ricerca, poi smentita da successive analisi, sarebbero sufficienti 10 minuti di Sonata di Mozart al giorno per registrare un miglioramento delle proprie capacità spazio temporali. Il cosiddetto "Effetto Mozart", come è stato soprannominato, non esiste, ma la ricerca ha alimentato una tradizione di studi incentrati sui benefici cognitivi dello studio della musica.

Mehr ha effettuato dapprima una revisione della letteratura scientifica sul tema scoprendo che, tra tutti gli studi sull'argomento, solo cinque hanno utilizzato trial randomizzati, esperimenti, cioè, in cui i soggetti sono assegnati a diversi gruppi in maniera casuale: un modo di procedere che garantisce la correttezza dei dati raccolti.

Tra questi, solo uno riportava un risultato leggermente positivo: un incremento di 2,7 punti nel quoziente intellettivo dei bambini dopo un anno di esercizi musicali (un risultato troppo poco significativo dal punto di vista statistico).

Mehr ha quindi reclutato coppie di genitori con figli di 4 anni per due diversi esperimenti. Nel primo, 29 adulti e altrettanti bambini sono stati assegnati casualmente a una classe di musica o a una di arti visive, dove grandi e piccini hanno dovuto imparare alcune attività da ripetere poi a casa. Nel secondo sono stati chiamati 45 adulti e i rispettivi figli: metà hanno ricevuto lezioni di musica e metà no.

Per entrambi gli studi i test non hanno misurato genericamente il QI, ma le abilità raggiunte, dopo un periodo di training, nella matematica, nel linguaggio e nelle abilità visuo-spaziali dei bambini. «Anche se tra le performance dei vari gruppi ci sono state leggere differenze nessuna ha rilevanza statistica» afferma Mehr. In altre parole, lo studio della musica non ha reso più intelligenti, dal punto di vista dei meri risultati, i bambini testati.

Naturalmente ci sono delle ragioni per insegnare, e studiare, la musica che esulano dai risultati immediatamente misurabili. «Non insegnamo Shakespeare (o Dante!) ai bambini perché crediamo che li aiuterà nei test di valutazione dell'intelligenza, ma perché riteniamo sia importante» ha spiegato il ricercatore.



Senza contare che lo studio della musica può tornare estremamente utile alle persone malate e meno giovani. In base studio appena pubblicato sulla rivista Neuropsychological Rehabilitation, la musica popolare che apprendiamo da bambini e che ci accompagna nel corso di tutta la vita è in grado di riportare alla mente ricordi positivi legati a situazioni felici o persone care anche nei pazienti che hanno subito gravi lesioni cerebrali. Potrebbe quindi essere utilizzata come strumento riabilitativo, per aiutare chi ha deficit neurologici a riconquistare preziose memorie autobiografiche.

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12 dicembre 2013 Elisabetta Intini
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