L’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo. Perché, ammettiamolo, è anche una delle più belle. Tuttavia, ricca com’è di peculiarità ed eccezioni, può indurci facilmente in errore, soprattutto quando scriviamo. Ma con un po’ di attenzione possiamo venirne a capo: il segreto è non respingere i dubbi sull’uso della lingua, quando ci vengono, ma approfondirli. Qui ne abbiamo raccolti 10, comuni e curiosi, prendendo spunto da alcuni libri di recente pubblicazione e dal lavoro delle principali istituzioni dedite allo studio e alla conservazione dell’italiano, a cominciare dall’Accademia della Crusca.
Sé stesso o se stesso? A scuola ci hanno insegnato che il pronome personale sé, quando è seguito da stesso non vuole l'accento, perché non ha più bisogno di distinguersi dalla congiunzione se. «Ma è una consuetudine: non c’è niente di sbagliato nello scrivere sé stesso e sé medesimo», avverte Claudio Giunta, docente di letteratura italiana all’Università di Trento, in Come non scrivere (Edizioni Utet). Quindi sì, va bene in entrambi i modi.
Un po’ o un pò? Si scrive un po’ con l’apostrofo e non con l'accento sulla o, perché po’ è la forma tronca di poco.
Si può dire: “da sempre”? Meglio di no. Scrive Giunta: «Da sempre e da subito si sentono sempre più spesso, ma se ci pensate sono espressioni che non hanno molto senso. Sempre non indica un momento del passato dal quale far cominciare il computo del tempo bensì una durata (sempre = per tutto il tempo); e subito non è sinonimo di ora ("d’ora in poi") ma di "immediatamente", ovvero esprime l’istantaneità di un fatto, di un’azione. Scriveremmo Mi è piaciuto da immediatamente? Invece di Sono stato da sempre a me pare meglio dire e scrivere Sono sempre stato».
L'annosa questione del congiuntivo? L’uso del congiuntivo nella lingua italiana meriterebbe un approfondimento. Nel frattempo, una delle poche regole sicure è: se una frase completiva può essere introdotta sia da che sia da come, dopo che ci vuole l’indicativo, dopo come il congiuntivo. Ecco un esempio:
"Ho già ricordato che i Romani avevano occupato gran parte dell’Europa".
"Ho già ricordato come i Romani avessero occupato gran parte dell’Europa".
Mina è la Tigre di Cremona? Sì, ma solo se lo diciamo col sorriso. «Le antonomasie - si legge in Come non scrivere - fanno tanto sussidiario delle scuole elementari. Dante Alighieri è Dante Alighieri, non è il Sommo Poeta. Machiavelli è Machiavelli, non è il Segretario fiorentino.
Verdi è Verdi, non è il Cigno di Busseto. Proprio come la cantante Mina è Mina, non La tigre di Cremona (o meglio, è anche "La tigre di Cremona", ma soltanto se lo si dice col sorriso)».
Perché qual è si scrive senz’apostrofo e quand’è, invece, con l’apostrofo? Perché qual non è un elisione (cade la vocale finale di una parola quando quella successiva inizia per vocale), ma - spiega Andrea De Benedetti in La situazione è grammatica (Einaudi) - «un’apocope di quale, una parola cioè che non ha alcuna necessità di appoggiarsi a un apostrofo per reggersi in piedi, come attestano le locuzioni la qual cosa, ogni qual volta, nel qual caso».
Ma come distinguere un’apocope da un’elisione? È facile: una parola troncata (apocope) si può pronunciare da sola conservando il suo significato (signor, cavalier, nobil, castel, fiorir, fuggir, buon, e qual); mentre non possiamo dire: l, dell, sant, senz, eccetera.
Perché si dice (e si scrive) i computer e non i computers e le tapas e non le tapa? Ce lo spiega il sito Il mestiere di scrivere: «All'interno di un testo italiano le parole straniere non si declinano al plurale, a meno che non siano entrate nella nostra lingua proprio al plurale, come nel caso di peones, tapas, avances e, naturalmente, jeans».
Si può dire “diffidate dalle imitazioni”? Se c’è uno slogan buono per tutte le stagioni è questo. Ma è corretto dire “diffidate dalle imitazioni”? Scrive De Benedetti: «Se il significato è quello di «invitare qualcuno ad astenersi dal compiere qualcosa», si dice infatti diffidare da («ti diffido dal mettere in giro notizie false sul mio conto»), se invece diffidare è l’antonimo (contrario) di fidarsi, bisognerebbe, anche solo per una questione di simmetria etimologica, dire diffidare di».
Dunque la forma corretta in questo caso sarebbe diffidate delle imitazioni. Ma, continua De Benedetti: «Il problema è sempre lo stesso, e cioè che a furia di imitare una forma sbagliata, questa ha ottime chance, a lungo andare, di convertirsi in regola, o quantomeno di essere recepita come tale…».
E "piuttosto che"? Negli anni 80 ha cominciato a diffondersi l’uso del piuttosto che con il significato disgiuntivo di “oppure”. È un errore. Il fenomeno - secondo i linguisti - potrebbe aver avuto origine nel parlato dei giovani di Milano e Torino.
“Questa sera, se vogliamo uscire, possiamo andare al cinema piuttosto che (= oppure) a teatro” e “Al mercato potete trovare ogni tipo di verdura: pomodori piuttosto che (= oltre che) peperoni…” sono due esempi dell’(ab)uso del piuttosto che.
Ma avverte la Treccani: «Si tratta di usi decisamente sconsigliabili non solo nello scritto, ma anche nel parlato». Dunque qual è l’uso giusto del piuttosto che? «Piuttosto che si usa correttamente davanti a proposizioni avversative e comparative e significa anziché, indica cioè una preferenza accordata a un elemento rispetto a un altro».
Dunque, è corretto: «Piuttosto che dire sciocchezze, rimani in silenzio», «Preferisco andare in bicicletta piuttosto che usare l’automobile».
Mentre non è corretto: «Possiamo andare al cinema piuttosto che (= oppure) a teatro».
Irruente o irruento? La prima è più vicina all’etimo latino (irruentem), la seconda, diffusa nell’italiano contemporaneo. Ma “Entrambe le forme” - avverte il dizionario Treccani - possono considerarsi corrette” (vale anche per succube e succubo).