Psicologia

Divertimento criminale: i videogame di nuovo sotto accusa

Recenti fatti di cronaca ridanno vita all'idea che i videogame più violenti siano i cattivi maestri di chi poi scende in strada e spara per davvero. Un'idea comoda, ma smentita dalla scienza e dalla realtà dei fatti.

Sono sul banco di un tribunale virtuale planetario, accanto a musica, film e altre forme di intrattenimento. I videogiochi sono accusati di fomentare, amplificare o addirittura scatenare la violenza nei ragazzi, e di modificare il funzionamento del cervello fino a causare dipendenza. Che cosa dicono in proposito i ricercatori che studiano questi fenomeni? La risposta breve è "no, non inducono comportamenti violenti"; quella lunga è molto più articolata e complessa.

Innanzi tutto perché «qualsiasi attività, dalla guida alla lettura al suonare uno strumento, cambia il nostro "organo di comando" in un modo o nell'altro», spiega Michela Balconi, che insegna psicofisiologia e neuroscienze cognitive all'Università Cattolica di Milano. Nel caso dei videogiochi, il problema è capire se tali modifiche siano in meglio o in peggio.

Appassionati. Prima di tutto dobbiamo considerare il fattore tempo, che incide parecchio. Spiega infatti Balconi: «Ogni gioco protratto per un lungo periodo ha effetti su alcune regioni cerebrali e sui neurotrasmettitori».

Per esempio, una recente ricerca del Siena Brain Investigation and Neuromodulation Lab ha scoperto che giocare aumenta le dimensioni di alcuni nuclei del talamo, la regione che trasmette i segnali sensoriali e motori alla corteccia, oltre che zone specifiche della corteccia stessa. Gli effetti variano a seconda della tipologia di videogame.

Molte ricerche hanno per esempio mostrato che i giocatori di videogame di azione, come gli "sparatutto" (in cui si avanza nel gioco uccidendo nemici) o le gare di auto, dopo qualche mese di gioco hanno una migliore performance per quanto riguarda la vista: nella visione periferica e nella definizione dei livelli di grigio. In generale, i videogiochi migliorano anche la velocità del passaggio tra un compito e l'altro, il cosiddetto multitasking, e aiutano ad "aggiornare" le informazioni in memoria, senza compromettere la rapidità di pensiero.

Prime ricerche. Visione e multitasking, però, non sono aspetti preoccupanti. Ma nel 1992 uscì Mortal Kombat, che con i suoi combattimenti brutali appassionò migliaia di teenager, inquietò non poco i loro genitori e diede il via alle prime ricerche approfondite sugli effetti dei videogame sul comportamento.

All'inizio gli studi sembrarono confermare i timori: chi usa i videogiochi (alcuni di essi, almeno) passa troppo tempo davanti allo schermo, studia poco, è meno interessato a stare con gli altri e, soprattutto, diventa più aggressivo e violento. Ricerche condotte in particolare su titoli d'azione come Doom o Grand Theft Auto (Gta), in cui la violenza è molto presente, sembravano dimostrare che potessero indurre a comportamenti aggressivi.

Alcuni articoli scientifici spiegavano che la brutalità verso i nemici virtuali "desensibilizzava" alla violenza, che quindi poteva essere vista come naturale anche nella vita di tutti i giorni.

Analisi difficili. All'inizio degli anni 2000 le tesi "fanno male", "fanno bene" (o anche "non fanno nulla") si combattevano a colpi di articoli scientifici. Nel 2005, però, accadde qualcosa di notevole: l'American Psychological Association (Apa), una delle principali associazioni di psicologi statunitensi, approvò una risoluzione (ribadita nel 2015) in cui evidenziava una relazione tra l'uso di videogiochi violenti, l'aumento del comportamento aggressivo e la diminuzione di quello pro-sociale e dell'empatia.

Il pronunciamento dell'Apa fu strumentalizzato scorrettamente da molti, con sentenze come "i videogiochi causano la violenza". In realtà, la ricerca non diceva che chi gioca a Gta andrà a investire i passanti o rapinerà una banca appena uscito di casa. Secondo lo studio, esiste solo una certa probabilità, rispetto a chi si dedica a giochi differenti, che aumentino i comportamenti aggressivi temporanei. L'analisi specificava anche che non c'erano prove che l'aggressività sfociasse in veri comportamenti criminali nel mondo reale.

Non solo: la ricerca dell'Apa aveva numerosi limiti e fu criticata apertamente da oltre 230 psicologi statunitensi, che in una lettera aperta ne giudicarono affrettate le conclusioni perché si basavano su studi di laboratorio, senza connessione con la vita reale, e perché gli stessi autori dell'analisi avevano già espresso idee a proposito del legame tra videogiochi e violenza. Insomma, lo studio più approfondito che cercava di dimostrare la pericolosità dei videogiochi faceva acqua da tutte le parti.

Un articolo del 2017 apparso su Psychology of Popular Media Culture (una pubblicazione accademica che fa capo alla stessa Apa) fece anche notare che secondo i dati del Dipartimento della giustizia degli Stati Uniti, l'uscita di videogiochi violenti come Grand Theft Auto San Andreas, Grand Theft Auto IV e Call of Duty Black Ops non corrispose mai a un aumento dei crimini violenti, né a un mese né a un anno di distanza.

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Una schermata da Cosmic Invaders, una delle infinite varianti di Space Invaders, che è stato uno dei videogiochi più influenti della sua generazione: "nato" nel 1978, è il capostipite dell'Età d'Oro degli Arcade. © Varlamova Lydmila / Shutterstock

Molti altri lavori recenti confermano che il collegamento tra videogame violenti e comportamento non esiste. Lo evidenzia per esempio uno studio dell'Università di York realizzato su oltre 3.000 adulti. Mentre una ricerca del Max Planck Institut pubblicata su Molecular Psychiatry ha evidenziato che anche l'esposizione quotidiana a videogame violenti non ha effetti a lungo termine sull'aggressività. Vi sembra poco? Non proprio.

Come fa notare la psicologa Kelli Dunlap (che usa i videogiochi in terapia) «i risultati nulli, per esempio ricerche che non trovano alcuna relazione tra violenza e videogiochi, spesso non vengono pubblicati».

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I videogame di nuovo sotto accusa è tratto da un articolo di Marco Ferrari su Focus 316, di gennaio 2019 (vedi). © Focus

Violenza temporanea. I videogiochi, in definitiva, non sarebbero causa diretta di violenza e delinquenza nel mondo reale. Spiega Balconi: «È il contesto che fa la differenza. Se la violenza è l'unico tipo di socializzazione che conosco, è chiaro che diventa il mio modello». È l'ambiente che porta a comportamenti aggressivi: se alcuni di questi adolescenti hanno giocato a un videogame prima di uscire a fare una strage, è solo una coincidenza. Le conclusioni non sono diverse per quanto riguarda la dipendenza. «Come per quasi ogni nostra attività, anche i videogiochi hanno effetti legati ai meccanismi di ricompensa nel cervello. I circuiti sono gli stessi che governano le risposte alle droghe, o al gioco d'azzardo», sottolinea Balconi. «I neurotrasmettitori coinvolti e le regioni cerebrali sono quelli che si "accendono" quando si vince, si raggiunge un obiettivo, ma anche quando si mangia qualcosa di gradevole o si fa sesso».

Il neuromediatore è principalmente la dopamina, che agisce nel cervello sui circuiti che producono piacere. Gli stessi meccanismi cerebrali sottostanno alla dipendenza da gioco d'azzardo, o all'abuso di sostanze come le droghe o anche alla dipendenza da Internet. «Ci sono individui più sensibili a rispondere a queste forme di intrattenimento, e hanno bisogno di sempre più stimoli per raggiungere la stessa soddisfazione; c'è quindi una predisposizione alla dipendenza da videogiochi, come da droghe», afferma Balconi.

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Su Focus 318 (in edicola) Paolo Paglianti racconta GMC Neon, l'avatar col quale abita mondi virtuali complessi e fantastici. © Focus

A ciò si somma il fatto che i videogiochi "prendono" perché sono costruiti per farlo. I creatori li strutturano in modo abbastanza avvincente da farti giocare, ma non così difficile da demotivare il giocatore. David Cage, creatore di Detroit: Become Human, aggiunge: «Ci sono resistenze sul fatto che i videogame debbano far provare emozioni complesse. Per questo si punta spesso su emozioni basilari, come quelle stimolate da azioni violente».

Per giocare. Le cose quindi non sono semplici: accusare i videogiochi di indurre alla violenza o alla dipendenza è semplicistico e in fondo sbagliato. In un contesto, familiare o genetico, che non porti alla violenza, i ragazzi che si mettono davanti allo schermo non diventano aggressivi o assassini. «Di per sé i videogiochi non hanno una valenza positiva o negativa», conclude Balconi, «sono uno dei tanti strumenti che consentono di esprimere forme di socializzazione diverse». Sta alla società costruire attorno al giocatore un ambiente per cui i videogame rimangano solo quello per cui sono nati: strumenti per giocare.

21 marzo 2019 Marco Ferrari
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