Psicologia

Quanto vale la prima impressione?

Bastano un libro e uno chignon per dare un’impressione diversa della stessa persona. Nella vita di tutti i giorni il rischio di dare, o ricevere, una prima impressione ingannevole è sempre presente. Il problema è che ci mettiamo pochi istanti a etichettare le persone. E infatti spesso sbagliamo. 

Un decimo di secondo. Poco più di un battito di ciglia. È il tempo che impieghiamo a farci un’idea di una persona, “etichettarla” in un determinato modo e formulare un giudizio di massima che probabilmente non cambieremo più.

Una modalità di socializzazione tutta umana che la scienza indaga da tempo, che molti professionisti conoscono (manager, professori, direttori del personale devono saper dare di sé la giusta impressione ed essere capaci di giudicare gli interlocutori in modo approfondito) e ha ispirato uno dei capolavori della letteratura di tutti i tempi, quell’Orgoglio e pregiudizio dell’inglese Jane Austen che sulla (sbagliata) prima impressione iniziale dei due protagonisti basa tutto l’intreccio narrativo del romanzo.

OCCASIONI PERSE. Il punto è: la nostra mente ci guida verso un giudizio equo o può trarci in inganno? Banalmente, può farci prendere clamorose cantonate. Innanzi tutto perché, se il nuovo interlocutore non colpisce subito la nostra attenzione, non saremo motivati a dedicare risorse ed energia ad approfondire la conoscenza.

Ma il vero problema è che la prima impressione (e anche tutto il processo successivo di raccolta ed elaborazione delle informazioni) non è mai oggettiva, perché sempre condizionata da schemi mentali, ricordi, aspettative, esperienze (la somiglianza con qualcuno che già conosciamo può condizionare il nostro giudizio), stati d’animo, veri e propri pregiudizi di chi giudica; e da aspetto fisico, abbigliamento, umore, modalità espressive del “giudicato”. Se uno o più di questi fattori giocano a sfavore della nuova conoscenza, sono altissime le probabilità che le resti cucita addosso un’opinione negativa.

Tanto siamo rapidi a sparare giudizi (da un decimo di secondo per stabilire se una persona è affidabile a cinque minuti, a seconda delle ricerche) quanto siamo lenti a modificarli (se non addirittura incapaci).

La spiegazione risiede in alcuni processi cognitivi. Il più importante è l’effetto primacy: l’ordine temporale con cui si ricevono le informazioni influenza la percezione e la valutazione dell’altro.

Vale a dire: siamo portati a credere che le prime cose che veniamo a sapere siano vere. Se nella fase iniziale di un incontro l’interlocutore ci appare, per esempio, brillante ed estroverso, interpreteremo tutte le successive caratteristiche in modo da confermare questa prima valutazione.

Non solo: tutte le informazioni dissonanti con lo schema iniziale o non vengono prese in considerazione o vengono giustificate in modo che appaiano accettabili. Quindi se la prima impressione è positiva, leggeremo in questa chiave anche tutte le successive informazioni. E viceversa.

L'abito fa il monaco. Un banco di prova per la nostra capacità di giudizio tira in ballo l’abusatissimo proverbio sull’abito e il monaco.

L’abito non farà il monaco, ma agli occhi di chi osserva l’abbigliamento conta, eccome.

Per quanto ci si possa proclamare anticonformisti, infatti, è praticamente impossibile non farsi condizionare dal look dei nostri interlocutori. La regola è: le persone ben vestite vengono inconsapevolmente considerate più credibili.

Di esperimenti al riguardo nel corso degli anni se ne sono fatti parecchi. Già negli anni ’50 una curiosa ricerca analizzò il comportamento delle persone che attraversavano con il semaforo rosso. Ebbene, gli individui ben vestiti erano maggiormente imitati nel comportamento trasgressivo (e pericoloso) rispetto a coloro che vestivano più modestamente.

Siamo molto più conformisti di quanto immaginiamo. E a ogni mestiere associamo un look che ci rassicura: al consulente finanziario giacca e cravatta (a sinistra), al medico il camice bianco (a destra)

Quando denunciamo un ladro? Più recentemente, gli psicologi del Laboratorio delle Tecniche di influenza di Vannes, guidati dal docente di psicologia sociale all’Università della Bretagna Sud Nicolas Guéguen, hanno condotto un esperimento nel quale un ricercatore fingeva di rubare un disco in un negozio davanti agli occhi degli altri clienti. Ripeté la scena due volte. In una era vestito in jeans e scarpe da tennis, la seconda volta indossava giacca e cravatta.

Risultato: il 35 per cento dei clienti segnalarono il furto quando il ricercatore era vestito casual, contro un esiguo 11 per cento quando il ladro aveva un abito elegante. Morale: poiché è difficile pensare a un ladro in giacca e cravatta, gli ignari protagonisti dell’esperimento sono rimasti vittime dei propri stereotipi mentali: abbigliamento curato = persona perbene.


Infine, l’aspetto fisico. Pesa sulle prime impressioni? Senz’altro, e non solo nelle dinamiche di un approccio romantico. Per valutare affidabilità e credibilità, per esempio, traiamo preziose informazioni dai lineamenti. Gli etologi da tempo sostengono che i caratteri infantili (fronte bombata, guance rotonde, occhi grandi, testa grossa rispetto al tronco, forme rotondeggianti) suscitano sentimenti di protezione e simpatia. Le persone adulte con questi lineamenti vengono percepite come più spontanee, oneste e affidabili rispetto a persone con tratti somatici più marcati e con il viso di una persona matura.

Mondo semplificato. Ma la trappola più pericolosa per la nostra capacità di giudizio è il pregiudizio (tecnicamente, un giudizio emesso in assenza di dati e quindi precede la conoscenza). Per molti studiosi è una caratteristica esclusivamente umana legata a processi mentali complessi che probabilmente si è evoluta in un lontano passato nella vita di gruppo. Potrebbe essere andata così: per favorire la sopravvivenza del proprio clan preservandone le risorse, abbiamo sviluppato un modo per distinguere velocemente gli appartenenti al gruppo dagli estranei, al fine di favorire i primi a discapito degli altri.


Dalle caverne, ai villaggi, a oggi, il meccanismo è diventato inconscio per tutti gli esseri umani. «Non esistono culture o società immuni da pregiudizi. È il modo che la mente umana ha trovato per semplificare il mondo e favorire gli investimenti, affettivi e cognitivi, su ciò che si riconosce come proprio» spiega il professor Bruno Mazzara, docente di psicologia sociale all’Università La Sapienza e autore di diversi libri sull’argomento, tra i quali Stereotipi e Pregiudizi (Il Mulino). Tutto è legato al concetto di normalità: tendiamo a caricare di valore positivo la normalità (e tutti gli appartenenti a un gruppo adottano codici, modi di fare, atteggiamento e regole simili), di valore negativo chi esce dagli schemi.

Poi c’è l’identità sociale. «Ciascuno di noi ricava l’immagine di sé e la propria autostima dai gruppi o dalle categorie sociali ai quali appartiene; ad esempio il genere, la professione, l’etnìa, la posizione sociale... Per confermare il nostro valore tendiamo a considerare migliori i nostri gruppi di appartenenza e a svalutare gli altri» spiega Mazzara. Questo ci porta a classificare ed etichettare gli altri con stereotipi e luoghi comuni, solitamente negativi: i tedeschi sarebbero rigidi e noiosi, gli inglesi ubriaconi, i francesi snob, gli americani sempliciotti. I suddetti ovviamente ricambiano: agli occhi del mondo noi italiani saremmo per principio mangiaspaghetti, inaffidabili, chiassosi...

ANTICORPI. Insomma, tutti tendiamo a semplificare le nostre valutazioni ricorrendo agli stereotipi, e tutti, più o meno, cadiamo nella trappola del pregiudizio. «Se accettiamo l’idea di fondo che un certo livello di “pre-giudizio”, inteso come giudizio preventivo sui fatti e sulle persone, sia necessario per la nostra economia mentale, cogliamo il fatto che riguarda chiunque e ogni situazione (ad esempio, vado a vedere il nuovo film di un regista che apprezzo perché nutro un pregiudizio favorevole nei suoi confronti)» sottolinea il docente di psicologia sociale. Ma questo non significa subirlo in modo inconsapevole o che vada considerato normale e accettabile il pregiudizio inteso come razzismo o discriminazione: «quest’ultimo» conferma Mazzara «è una trappola in cui si deve stare attenti a non cadere».

E non è facile. Il pregiudizio è un automatismo che costa fatica arginare. Molti studi recenti hanno dimostrato come la risposta di ostilità nei confronti di quanti appartengono a gruppi diversi dal nostro si attivi in modo inconsapevole e immediato. Tra questi, gli studi che utilizzano le tecniche di “brain imaging”, tramite le quali è possibile evidenziare quali aree cerebrali risultino attivate in corrispondenza di determinate situazioni o compiti.

Anche se rispetto all’affidabilità di queste tecniche sono state sollevate numerose obiezioni, i risultati raggiunti offrono spunti di riflessione interessanti. Ad esempio, uno studio di qualche anno fa ha sottoposto a tecniche di brain imaging e a test cognitivi 30 persone di pelle bianca durante normali interazioni con individui di colore.

I ricercatori del Dartmouth College di Hannover, New Hampshire (Usa), hanno scoperto che quando le persone combattono i pregiudizi affaticano la mente più degli altri. In particolare hanno registrato una maggiore attività della corteccia prefrontale, l’area del cervello che controlla pensieri e comportamenti: come conseguenza di questo sforzo, subito dopo hanno addirittura registrato performance più scadenti nei test cognitivi successivi a cui sono stati sottoposti.

Sulla stessa linea le ricerche del gruppo guidato da Elizabeth Phelps, professore di psicologia e neuroscienze alla New York University, nelle quali si è dimostrato che “l’altro” da sé genera attivazioni diverse nell’amigdala, una piccola struttura cerebrale particolarmente coinvolta nei processi emozionali.

Oggi la ciccia non piace. «Ovviamente tutto è legato al contesto storico: i pregiudizi cambiano a seconda del luogo e dell’epoca, e così capita che diversi gruppi o categorie di persone diversi siano di volta in volta oggetto di discriminazioni» ricorda Mazzara. Una considerazione che si applica a fatti di ogni genere. Ad esempio l’essere sovrappeso: un tempo era un simbolo di benessere, nella società contemporanea è diventato un problema da quando si è imposta la cultura dell’immagine e dell’efficienza. Il filtro inconsapevole che deforma le nostre valutazioni suggerisce: chi è grasso non ha autocontrollo, è pigro, è debole.


E tutto questo non è scevro di conseguenze. Uno studio dell’Università di Manchester nel Regno Unito e della Monasch University in Australia ha dimostrato che le donne obese a parità di requisiti e curriculum hanno molte meno probabilità di ottenere un lavoro se devono competere con candidate normopeso. E, comunque, sono pagate meno delle colleghe magre.


Pregiudizi medici. Ma la discriminazione più assurda avviene dove meno dovrebbe essere: fra i medici. Secondo uno studio pubblicato su Plos One svolto da Janice Sabin dell’Università di Washington e da colleghi dell’Università della Virginia, i medici nutrono pregiudizi impliciti ed espliciti nei confronti dei pazienti obesi.

L’indagine ha coinvolto 400.000 partecipanti, di cui 2.000 dottori: i risultati sono stati gli stessi tanto nelle persone comuni quanto fra i medici. Quanto questo influisca sulla qualità delle cure è tutto da dimostrare, ma queste ricerche parlano chiaro sulla natura insidiosa del pregiudizio.

E invitano a riflettere sempre un po’ di più prima di etichettare qualcuno senza averlo mai conosciuto davvero.

21 settembre 2017 Emanuela Cruciano
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