Empatia, questa sconosciuta. Eppure, comprendere i processi psichici dell'altro o, più semplicemente, "sentire" che cosa provano gli altri mettendosi - metaforicamente - nei loro panni è una chiave per vivere meglio con le persone del nostro mondo e, oggi più che mai, per entrare in contatto con quell'universo di culture che la globalizzazione dell'economia ha imposto.
Anche con chi "entra in contatto" in situazioni estreme, com'è il caso dell'imponente ondata di profughi di questo periodo. «La nostra incapacità di capire il punto di vista degli altri, le loro esperienze e i loro sentimenti sono alla base del pregiudizio, del conflitto e della disuguaglianza: l'empatia è l'antidoto di cui abbiamo bisogno», sostiene l'autore del best seller Emphaty, l'inglese Roman Krznaric.
Proprio dagli inglesi arriva un originale invito: sulla riva del Tamigi, una performance - A Mile in My Shoes - invita a calzare le scarpe di un'altra persona e ad ascoltare la sua vita in cuffia, interpretando alla lettera il detto (inglese) "prima di giudicare qualcuno, cammina un miglio con le sue scarpe". Un'esortazione a esercitare l'empatia senza farsi travolgere dall'emozione.
Laura Boella, docente di Filosofia morale alla Statale di Milano, lo ha definito con esattezza in una intervista: «La tesi che emerge dagli studi sui circuiti neuronali sostiene che l'empatia è un'esperienza molto complessa, non riconducibile solo a una risposta emotiva automatica. La risposta emotiva è un fuoco di paglia: possiamo essere colpiti dal dolore di una persona accanto a noi, ma affinché il proprio disagio diventi attenzione per l'altro è importante l'intervento delle capacità cognitive, che significa per esempio l'immaginare la vita altrui e comprenderla. Insomma, bisogna lavorarci un po' su, mettendosi in gioco».