Questo articolo avremmo potuto scriverlo domani, e forse sarebbe venuto meglio. O tra una settimana, ma saremmo arrivati dopo tutti. La virtù sta nel mezzo, anche quando si tratta di procrastinare. Prendersela comoda sui tempi di una scadenza sembra alimentare il pensiero creativo, a patto di non esagerare: se si deve finire un lavoro di corsa si rischia di consegnare un prodotto raffazzonato.
A tessere le lodi della procrastinazione è Adam Grant, psicologo organizzativo alla Wharton Business School dell'Università della Pennsylvania e autore di Originals: How Non-Conformists Move the World, un saggio che esamina i comportamenti comuni dei pensatori più visionari di sempre.
Il giusto equilibrio. Un loro tratto ricorrente è la tendenza a tergiversare sui compiti assegnati: sanno che possono permettersi di perdere un po' di tempo e che questo favorirà idee più creative; ma sanno anche quando smettere e rimboccarsi le macchine, come spiega Grant in questo TED, che vale la pena vedere (è sottotitolato in inglese).
L'esempio dei più grandi. Chi non ha l'ansia di arrivare in anticipo o di finire prima degli altri, si concede il tempo di concepire nuove idee e di trovare soluzioni originali. Quando Martin Luther King preparò il suo storico discorso a Washington nel 1963, continuò a correggere gli appunti fino a pochi minuti prima di pronunciarlo. La frase che tutti ricordiamo - I have a dream - non era nella bozza originale.
Buona la... seconda. Fu un'aggiunta dell'ultima ora: la prima idea, dice Grant, non è quasi mai la migliore. La convizione che per avere successo si debba "fare la prima mossa" è soltanto un mito; per sfondare occorre fare un passo ulteriore, percepire la situazione che si ha davanti, migliorare un servizio, offrire qualcosa in più degli altri (del resto Google è arrivato dopo Altavista e Yahoo).
Sedimentare. Insomma per il prossimo momento di nullafacenza avete una buona scusa. Prima dello sprint finale occorre lasciare alle idee un po' di tempo di incubazione; anche se questo significa dover sperperare, a volte in modo frustrante, interi giorni di lavoro.