Non sempre abbiamo fame e ci nutriamo per necessità. Spesso, anzi, lo facciamo per gusto, al punto che se potessimo scegliere mangeremmo soltanto ciò che ci piace. La sensazione della fame, infatti, dipende da meccanismi complessi, tutti collegati fra loro, nei quali la componente psicologica ha un ruolo chiave.
I segnali del cervello. Nel cervello, i centri che regolano fame e sazietà risiedono nell'ipotalamo, la struttura posizionata tra i due emisferi. I segnali "ho fame" oppure "sono sazio" arrivano fin qui dagli organi periferici e ci spingono a cercare il cibo, oppure ci fanno smettere di mangiare. Questi messaggi sono di natura chimica: per esempio, quando lo stomaco è vuoto produce grelina, che stimola l'appetito, mentre il tessuto adiposo produce leptina, che lo sopprime. Dopo un pasto, il pancreas secerne insulina, che induce sazietà, ma lo stesso organo produce anche un'altra molecola – il neuropeptide Y – che fa venire fame.
La regolazione è molto sofisticata, per far sì che si assuma cibo quando serve e si digiuni se invece non c'è bisogno di nutrienti. Non sempre, però, tutto va come dovrebbe: la sensazione di fame e sazietà può infatti essere alterata da certe malattie. «I diabetici, per esempio, hanno l'impressione di avere sempre bisogno di zuccheri, quando in realtà, a mancare nel loro organismo è l'insulina», spiega Carla Lertola, medico specialista in scienza dell'alimentazione e dietetica. Più spesso, però, a metterci lo zampino è la mente, soprattutto in una società – la nostra – in cui il cibo raramente scarseggia.

Acquolina in bocca. La regolazione della fame e della sazietà, infatti, si è evoluta in tempi antichi per permettere ai nostri antenati di fare incetta di cibo quando questo era disponibile, così da far fronte agli inevitabili periodi di carestia che sarebbero seguiti. Per questo, ancora oggi gli alimenti molto energetici (come zuccheri e grassi) sono anche quelli che più stimolano l'acquolina in bocca. I nostri antenati non resistevano ed è difficile controllarci anche per noi.
Di fronte al cibo, tutto il nostro apparato sensoriale – l'olfatto, la vista, il gusto – invia segnali alla corteccia cerebrale, che elabora gli stimoli ricevuti e trasmette i dati al resto del sistema nervoso prima, e a tutto il tratto gastroenterico poi. La stimolazione sensoriale si trasforma così in un tuffo nel cibo, alquale – per giunta – segue una sensazione di benessere.
Dopo aver ben mangiato, infatti, il cervello libera molecole che ci fanno sentire bene.
Che consolazione! Anche per questo, in certi casi non serve neppure vedere il cibo per stimolare l'appetito. Se ci troviamo in una situazione psicologica difficile, l'idea che dopo aver mangiato staremo meglio è sufficiente a farci aprire il frigo. La mediazione delle emozioni, il prevaricare della parte emotiva su quella razionale, ci fa dimenticare insomma che mangiamo per sopravvivere e che il ricorso al comfort food – il cosiddetto cibo consolatorio – porta a un aumento considerevole di peso.
«Siamo spesso convinti di essere capaci di regolarci da soli, ma non è così», spiega Carla Lertola. «Dobbiamo imparare a essere più consapevoli, fare attenzione al modo in cui ci nutriamo e cercare di non lasciarci trascinare dalle emozioni del momento. Certo, possiamo anche concederci delle eccezioni, che però devono restare tali».
Questo articolo di Francesca Iannelli è tratto da A, B, Cibo: il "dizionario alimentare" a cui è dedicato il numero 85 di Focus Extra in edicola.