Subito sopo aver vinto l'oro olimpico nei 100 metri piani, il nuovo re della velocità Marcel Jacobs ha ringraziato soprattutto una persona: la sua mental coach, che l'ha seguito nei mesi precedenti in allenamenti e gare, aiutandolo ad assumere la disposizione mentale che gli ha consentito di spingere i suoi muscoli al massimo.
Non solo sport. Che cosa fa un mental coach, e perché può diventare così importante? «In realtà, sotto questa definizione si nascondono figure professionali con "sfumature" diverse che lavorano in molti ambiti, non solo nello sport», racconta Francesca di Nardo, life coach. «Anche perché il vero coaching non consiste nel motivare le persone, cioè nel "gasarle" stando al loro fianco: altrimenti appena il coach si allontana la persona perde lo slancio. Il coaching porta l'assistito a rendersi conto con più chiarezza delle possibilità che ha e dello scopo che lo muove rendendogli facile e anche piacevole perseguire i propri obiettivi.» Ecco perché questa disciplina può applicarsi in molte situazioni: agli studenti che devono arrivare alla laurea, al manager che deve portare avanti progetti coinvolgendo altre persone, a chi vuole raggiungere obiettivi difficili che riguardano la sfera personale, per esempio perdere molti chili di peso eccetera.
Onde cerebrali. Le ricerche scientifiche che ne dimostrano l'efficacia riguardano soprattutto l'ambito sportivo ma danno risposte nette: un buon coaching mentale fa la differenza. Uno studio condotto l'anno scorso da un team di scienziati dell'Università di Groningen e altri atenei olandesi su un gruppo di calciatori della nazionale e di atleti top in atletica leggera ha dimostrato che 4 sessioni di mental coaching distribuite in una settimana sono state sufficienti perché le onde alfa cerebrali degli sportivi si stabilizzassero su un livello che indicava maggiore relax mentale e quindi maggiore capacità di concentrazione.
Non solo: anche l'efficienza muscolare, misurata con strumenti che quantificano la trasmissione dell'impulso nervoso e la capacità di contrarsi, è migliorata. «Piccole differenze, naturalmente, ma ad alto livello la preparazione tecnica degli atleti è praticamente identica e anche un piccolo incremento può fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta in una gara o in una partita», ha commentato Ewold de Maar, uno degli autori dello studio. Allo stesso risultato erano arrivati qualche anno fa gli scienziati della California State University insieme a colleghi coreani: sottoponendo alcuni atleti paraolimpici di tennis tavolo (ping pong) a otto sedute di mental coaching in tre mesi, hanno ottenuto un migliore controllo emotivo durante le partite, di solito lunghe ed estenuanti, che ha portato anche a una medaglia d'argento alle Paralimpiadi di Londra del 2012.
Nelle aziende. Per consentire agli sportivi (e non solo) di arrivare a questi risultati, il mental coach deve soprattutto saper porre le domande giuste. Le cose da fare, le strategie da seguire e talvolta anche la definizione degli obiettivi vengono infatti messi a fuoco direttamente dall'assistito che viene guidato dal coach in questo lavoro di scoperta, seduta dopo seduta. Il coaching, insomma, è un metodo maieutico applicato in modo sistematico. Nato in ambito sportivo, è stato poi codificato da alcuni studiosi negli anni Ottanta e Novanta per essere applicato ad aziende e persone. In particolare, lo psicologo ed ex pilota automobilistico inglese John Withmore ha tracciato le linee guida affermando che un buon coach deve soprattutto usare l'intelligenza emotiva: sa ascoltare, crede nelle possibilità della persona che segue, la mette alla prova, le dedica tempo e la tratta da pari a pari.
Inoltre il suo ruolo è far prendere coscienza di sé (del perché si fanno alcune cose) come essere consapevoli delle proprie percezioni fisiche durante l'attività sportiva, oppure essere coscienti del proprio umore quando si va al lavoro. Le domande di un coach possono servire anche solo a dimostrare che la persona è capace di risolvere da sé i suoi problemi, ma è fondamentale che si tratti di una scelta volontaria. Dire "prenditi la responsabilità" non serve a nulla. C'è modo e modo di chiedere le cose. Whitmore fa questo esempio: se il capocantiere dice a un operaio "Peter, vai a prendere la scala, ce n'è una nel capanno", nel caso la scala non sia nel luogo indicato Peter ritorna dal capo dicendo: "Non ci sono scale nel capanno". Ma se la richiesta suona così: "Qui c'è bisogno di una scala, penso che ce ne sia una nel capanno. Chi è disposto ad andarla a prendere?" e se Peter si offre di andare, e poi non trova la scala, difficilmente tornerà dal capo senza, ma la cercherà in un altro luogo finché non la trova. E questo perché, accettando il compito, se n'è assunto anche la responsabilità.
Definire gli obbiettivi. In generale, le sedute di coaching dovrebbero seguire un percorso a 4 tappe, detto Grow che è l'acronimo di Goal (definizione degli obiettivi da raggiungere), Realtà (capire bene come è la situazione in cui ci si trova), Opzioni (quali possibilità ci sono per agire), Will (volontà, ovvero che cosa si vuol fare per arrivare all'obiettivo definito all'inizio).
In questo processo gli obiettivi non dovrebbero essere generici (sul lavoro "diventare direttore vendite" o nello sport "vincere l'Oro"); meglio porsi degli obiettivi nelle prestazioni (per esempio vendere tot pezzi di un certo prodotto nel prossimo mese, o raggiungere il tal tempo durante un allenamento nella corsa).
Gli obiettivi di performance funzionano: nel 1972 uno studente Usa di nome John Naber decise che alle Olimpiadi del 1976 avrebbe vinto i 100 metri dorso nel nuoto. Era stato il vincitore dei campionati juniores statunitensi, ma era ancora 5 secondi sotto il tempo necessario, un'enormità. Naber calcolò di quante frazioni di secondo doveva migliorare i suoi tempi per ogni ora di allenamento nei successivi 4 anni. E lo fece: vinse l'oro olimpico sia nei 100 sia nei 200 metri dorso. Per questo, la fase iniziale di definizione degli obiettivi e degli step per arrivarci dura piuttosto a lungo, il coach cerca di aiutare la persona a individuare uno scopo che la appassioni. E quando l'assistito sembra uscire dal seminato lo si può indirizzare con domande tipo: "In che modo questo è in relazione con l'obiettivo?", così la persona si accorge se sta divagando. Il coach insegna anche a descrivere le situazioni con distacco, evitando valutazioni e giudizi.
per Dimagrire. E fa concentrare sulla propria realtà interiore, cioè sui pensieri e sulle emozioni che l'assistito prova, su ciò che dà per scontato e ciò che si aspetta da se stesso. «In questa fase si può riuscire a rimuovere dei "blocchi", magari usando un po' di creatività. Mi è capitato di fare da coach a una persona obesa che voleva dimagrire, ma finiva per abbandonare le diete. Ho capito che non si rendeva conto di quanto i chili la ostacolassero. Così le ho consigliato di fare un giro del palazzo con uno zaino pieno di libri sulla schiena e poi lo stesso giro senza. Ha capito che cosa sarebbe cambiato dimagrendo e si è attivata», aggiunge Di Nardo.
Alla ricerca di uno scopo. Quando poi si tratta di trovare tutte le possibilità (le opzioni) a disposizione per raggiungere il proprio obiettivo, il coach prova a farne emergere il più possibile. E una volta trovate le opzioni può essere utile fare un elenco dei rischi e dei benefici di ciascuna. Su questo cammino si va di frequente avanti e indietro, perché ogni step può aiutare a definire meglio l'obiettivo.
Alla fine, comunque, lo scopo del coaching è trasformare tutte queste fasi in una decisione. Per riuscirci, ancora una volta, si interviene con domande. Per esempio: "Su quale di queste alternative agirai?", "Quando lo farai?" (e la risposta deve dare una data di inizio precisa) o "In che modo questo ti aiuterà a raggiungere il tuo obiettivo?", "Quali ostacoli potresti trovare" ecc. È la fase in cui ormai ci si prepara ad agire. Lo scopo ultimo del coaching, però, è nettamente più ambizioso: far trovare a una persona un senso e uno scopo non solo a ciò che sta facendo in quel momento (nello sport, in famiglia, sul lavoro), ma alla sua vita in generale.
Senso e scopo non sono la stessa cosa: il primo è il significato che attribuiamo a un evento, il secondo è il nostro intento nell'intraprendere delle azioni. Il mental coach esplora entrambi questi campi utilizzando domande come "Che cosa desideri ardentemente?" o "Che differenza vorresti fare tu nel mondo?". Per avvicinarsi a questo risultato bisogna essere molto abili e soprattutto, come dice Whitmore, mai porre domande a cui tu stesso non sia disposto a rispondere in prima persona. In caso di riuscita, la ricompensa per l'assistito è trovare il piacere insito in ogni esperienza, il che aumenta la pazienza verso se stessi e gli altri, e fa sì che la persona sia più soddisfatta. Come dice Withmore, c'è una grande differenza tra cercare continuamente di fare una cosa nel modo giusto o tenere monitorati i cambiamenti che avvengono come conseguenza dei propri sforzi senza formulare giudizi. Se si impara a fare questo, la vittoria è già in tasca.
Come uno psicologo. Per arrivare a un risultato, presa di coscienza e responsabilità sono fondamentali. E si ottengono più efficacemente ponendo domande piuttosto che dando istruzioni, affermano gli esperti di coaching. Serve a poco dire: "Tieni gli occhi sulla palla", usando un comando diretto. Molto meglio fare domande come: "In che direzione gira la palla mentre viene verso di te?", che spingono ad aumentare l'attenzione per il gioco e la consapevolezza di ciò che sta succedendo. Naturalmente, è importante anche come le domande vengono poste: dire "Ci sono problemi?" invita a rispondere "No", ma chiedere "Quali altri problemi potrebbero esserci?" suscita invece riflessioni.
Non esiste comunque uno schema di domande predefinite. Il segreto del coaching è ascoltare attentamente, seguendo il filo dei ragionamenti di chi deve essere aiutato.
«Le domande non sono mai predeterminate perché il coach deve solo aiutare la persona a sviluppare il proprio potenziale, un cammino che ovviamente è diverso per ciascuno di noi, un processo creativo che viene appunto innescato durante il coaching», sottolinea Di Nardo. Inoltre, un buon coach ascolta anche con gli occhi, osservando il linguaggio del corpo di chi ha di fronte: in genere il corpo proteso in avanti indica interesse, se la mano copre parzialmente la bocca di chi parla può essere segno di incertezza o di ansia, mentre le braccia incrociate sul petto sono un segno di resistenza. Mentre ascolta, un po' come lo psicologo, il mental coach prende appunti. E pratica il cosiddetto ascolto attivo, cioè ripete, riassume e cerca di parafrasare ciò che gli è stato appena detto per segnalare di aver ascoltato e compreso, ma anche per far riflettere l'interlocutore su ciò che ha appena detto.
Tratto da Su quali leve agisce il mental coach, da Focus 348 (ottobre 2021). Leggi anche il nuovo Focus in edicola!