Psicologia

L’odio ai tempi del coronavirus (e non solo)

Il virus non discrimina, noi sì: la CoViD-19 ha scatenato un'ondata di odio verso i presunti "untori", un fatto che purtroppo si ripete spesso nella storia.

Riduzione (momentanea) dell'inquinamento atmosferico e mani più pulite non sono purtroppo gli unici effetti collaterali del nuovo coronavirus. Ce ne sono altri, decisamente più spiacevoli: il razzismo, sconfinato anche nell'odio verso il prossimo. Perché se è vero che quando non ci troviamo in mezzo a un'emergenza sanitaria ci piace mangiare noodles e riso alla cantonese, quando combattiamo contro un virus che arriva dalla Cina diventiamo intolleranti e violenti, verbalmente e non solo.

All'estero siamo ripagati con la nostra stessa moneta, etichettati come gli untori del Vecchio Continente (anche quando il contagio sembra avere origini differenti), oppure oggetto di battute più o meno infelici (come quelle di un programma satirico francese di Canal+, per il quale qualche giorno fa i cugini d'oltralpe si sono scusati).

Purtroppo l'odio e il razzismo scatenati dal timore del contagio (oltre che da una notevole dose di ignoranza) hanno radici profonde e non sono certo una prerogativa esclusiva dei nostri tempi e dei social network: nel corso della storia sono stati numerosi i casi di xenofobia connessi allo scoppio di epidemie, dalla Peste Nera alla sifilide, dal colera al tifo.

La peste e gli ebrei. La peste bubbonica, regina delle pandemie, nota anche come Morte Nera, scoppiò in Europa a più riprese. A metà del XIV secolo provocò la morte di milioni di persone: con l'aumentare del numero di vittime, i cristiani iniziarono a farsi delle domande sull'origine di quella tremenda epidemia. Vedendo che alcune comunità ebraiche si erano inizialmente salvate dal contagio, si pensò bene di incolparle: alcuni sostenevano che avessero inquinato i pozzi, altri che volessero sterminare i cristiani avvelenando olio e formaggio. Fu così che gli ebrei vennero colpiti non solo dalla peste, ma anche dall'odio e dalle rappresaglie dei propri concittadini.

La sifilide. «Le nuove malattie fanno emergere le fobie più profonde di una cultura», afferma William Eamon, esperto di storia della scienza. Niente di più vero, e la sifilide ne è la riprova: quando iniziò a diffondersi, a partire dal XV secolo, ogni Paese europeo ne incolpò un altro. E così divenne mal napoletano fuori da Napoli, mal francese fuori dalla Francia, mal polacco in Germania e mal tedesco in Polonia (per poi, tre secoli dopo, essere conosciuta in Giappone come mal portoghese e in Persia come mal turco). Molto tempo dopo si è infine capito che, contrariamente a ciò che si crede, la sifilide non venne importata da Cristoforo Colombo da ciò che riteneva essere "la Cina", ma che fosse già presente in Europa fin dai tempi degli antichi greci.

Oltre al danno, la beffa. In alcuni casi, il panico e il conseguente odio verso i presunti untori si rivelò molto controproducente per il contrasto alla malattia, come accadde con un'epidemia di colera negli Stati Uniti. La malattia fu chiamata Irish disease, male irlandese, poiché coincise casualmente con l'arrivo di grandi flussi di migranti dall'Irlanda. Nel tentativo di contenere i contagi, i medici consigliavano di non bere whisky (come gli irlandesi), ma acqua. Niente di più sbagliato (e non per elogiare la qualità del whisky irlandese): il batterio proliferava proprio nelle acque contaminate dei pozzi.

Mondo oscuro. Nonostante i progressi scientifici e delle tecnologie, a dispetto delle conquiste sociali o del fatto che ci piace parlare della vita su Marte e ammirare Parmitano passeggiare nello Spazio, questa tendenza a guardare ancora con diffidenza chi è diverso, e di incolparlo dei nostri mali, non è cambiata nel tempo. Quello ch è successo nelle ultime settimane spiegherà forse anche perché occorra scegliere bene quale nome dare a una nuova malattia, evitando riferimenti etnici o geografici, ma, soprattutto, ci ha colto di sorpresa nel buio delle nostre vecchie, medievali paure.

11 marzo 2020 Chiara Guzzonato
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