Le teorie che gridano al complotto e si basano su prove scientifiche inesistenti sembrano godere di ottima salute, e trovano nel web e sui social media la loro "casa" ideale. Ma in quale misura il loro successo è attribuibile a Internet? Davvero la Rete le rende più popolari? Il tema - complesso - è al centro di un articolo di Karen Douglas, Docente di Psicologia Sociale all'Università del Kent (Regno Unito), pubblicato su The Conversation.
Anche se è facile collegare il fiorire di bufale e cospirazionismi al facile accesso al web, non ci sono evidenze scientifiche del fatto che oggi questi siano più diffusi di un tempo. Internet li alimenta, certo, ma non nel modo in cui saremmo portati a pensare. Non ne aumenta la diffusione tra la popolazione generale, né ne fa nascere di nuove. Piuttosto, ne facilita la propagazione tra utenti che già sono portati a credervi, rendendo le loro opinioni ancora più monolitiche.
Dalla notte dei tempi. Come ricorda Douglas, le teorie del complotto hanno origini antiche: idee antisemite basate su ignoranza e superstizione sono documentate, per esempio, già nell'Antica Roma. Un'analisi delle lettere pubblicate sul New York Times tra il 1897 e il 2010 dimostra che, fatta eccezione di un paio di picchi durante la depressione economica globale di fine Ottocento, e di un'ondata di paura del Comunismo attorno al 1950, le teorie complottiste non sono aumentate. Da sempre le riteniamo interessanti, da sempre ne siamo attratti.
Un vuoto da riempire. Allo stesso tempo, studi scientifici dimostrano che queste idee vengono adottate più facilmente da chi ha bisogni psicologici non soddisfatti: rispondono al desiderio di inclusione e di appartenenza a un gruppo che tutti avvertiamo, e risultano particolarmente allettanti per chi non riesce ad ottemperare a queste necessità attraverso le relazioni sociali. È su questo tipo di utente, che Internet ha l'impatto maggiore.
Fake news e cospirazionismi, infatti, non contagiano qualunque tipo di persona, diffondendosi indiscriminatamente. Non tutti leggono e condividono contenuti di questo genere, che trovano invece terreno fertile nelle comunità social che già vi credono. Per esempio, chi è convinto che lo sbarco sulla Luna non sia mai avvenuto, sarà più incline a unirsi a gruppi su Facebook di persone che la pensano allo stesso modo. Chi invece conosce la storia delle esplorazioni spaziali non lo farà, né condividerà materiale che alimenti questa bufala.
Dimmi che ho ragione. Il web ha quindi un ruolo chiave nel far incontrare i complottisti e nel rafforzare le loro convinzioni: all'interno di queste comunità si tenderà a condividere materiale che consolidi l'idea comune, ma si sarà più restii a diffonderlo all'esterno, con chi potrebbe avere un'opinione critica a riguardo (il problema della bolla dei filtri riguarda comunque un po' tutti: sul web, tendiamo a circondarci di persone che la pensano come noi, dimenticandoci che la realtà è ben più variegata).
Online, le comunità di cospirazionisti si rafforzano con il tempo, e il loro pensiero si fa sempre più omogeneo. Inoltre, uno studio del 2015 ha dimostrato che chi è convinto sostenitore di bufale classiche e consolidate tende anche più facilmente a credere, e condividere, teorie del complotto completamente nuove e palesemente inventate.
Dal virtuale al reale. Se fosse soltanto una questione di opinioni, non sarebbe un problema: ognuno è libero di credere a ciò che vuole, incluso materiale fittizio e implausibile. Purtroppo, però, alcune teorie del complotto hanno conseguenze pericolose: quella che abbina vaccini e autismo, sta favorendo la ricomparsa di malattie potenzialmente mortali, che pensavamo debellate; e quella che nega le responsabilità umane nei cambiamenti climatici, dissuade da un impegno civile e politico nei confronti del Pianeta.