Permettereste a un software di tenere traccia costante delle vostre attività al cellulare, per amor di scienza? Se la risposta è affermativa, potreste essere i soggetti ideali dello Human Screenome Project, la più ambiziosa e monumentale raccolta di dati mai lanciata sulle nostre abitudini allo schermo.
Secondo Byron Reeves, psicologo dell'Università di Stanford e padre del progetto, ognuno di noi ha un'impronta digitale caratteristica, lo screenoma: è questo identikit - e non tanto la quantità di tempo trascorsa al cellulare, o al computer - che potrebbe racchiudere informazioni importanti sulle conseguenze del nostro rapporto con la tecnologia.
Un precedente illustre. Il progetto è descritto in un lungo articolo divulgativo su Nature. L'idea è di installare sui dispositivi usati da volontari programmi che raccolgano in background un'istantanea dello schermo ogni 5 secondi, quando questo è attivo. Ogni istantanea - ogni controllo dell'ora, spunta di WhatsApp, ricerca Internet e via dicendo - entrerà a far parte di un calderone di dati che potrebbero rivoluzionare la comprensione di come la tecnologia sia connessa ai problemi che le attribuiamo. Il richiamo evidente è allo Human Genome Project, completato nel 2003, che ha cambiato per sempre la conoscenza dell'origine delle malattie.


due problemi di fondo. Il tempo trascorso davanti allo schermo è stato collegato ad ansia e depressione, allo sviluppo di malattie metaboliche, disturbi di memoria e di attenzione, alla qualità del sonno e delle relazioni, al rendimento scolastico e alla tenuta delle democrazie.
L'esperienza sembra suggerire che le nostre abitudini digitali (in particolare l'uso dei social) abbiano un effetto in tutto questo, ma finora è stato molto difficile suffragare questa ipotesi con dati scientifici.
Una revisione sistematica di 226 studi su social media e salute mentale condotti negli ultimi 12 anni non ha trovato relazioni significative tra l'uso di Facebook, Instagram e affini e benessere psicologico. I problemi sono essenzialmente due: il primo è che la maggior parte di questi studi si basa su questionari di autovalutazione (nei quali si tende a mentire).
Il secondo è che si misura quasi sempre, soltanto la quantità di tempo trascorsa online. Un parametro a dir poco generico: il "tempo passato su Facebook" potrebbe indicare una navigazione distratta tra post e foto degli amici, la lettura di un articolo, una sessione lavorativa, la partecipazione a una raccolta fondi, la scrittura di post al vetriolo in una sessione di commenti...
Labirinti personali. A parità di schermo attivo, ognuno di noi si muove insomma su strade individuali.
Reeves fa l'esempio di due 14enni californiani coinvolti nello Human Screenhome Project. Apparentemente trascorrevano online una quantità di tempo simile (3,5-4,5 ore). Ma un'analisi più attenta ha svelato che il primo era stato online per 186 sessioni di circa un minuto, il secondo aveva preso in mano il cellulare per 26 sessioni giornaliere di circa 3 minuti. Il primo aveva passato la maggior parte del tempo su Snapchat e Instagram (era, cioè, un produttore di contenuti) il secondo, aveva passato metà del suo tempo su YouTube o a fare screenshot di foto di cibi online (consumatore di contenuti).
Per capire come questo impatti sulle nostre vite servirà conoscere meglio la nostra dieta digitale: siamo più creatori, o più fruitori? Come ci spostiamo da una app all'altra, da una piattaforma all'altra, da un argomento all'altro? Come evolve nel tempo la nostra attività online? «Il punto è come le persone connettono frammenti apparentemente scollegati» spiega Reeves «da una lettura di un post su Facebook a uno sguardo alla campagna presidenziale, a un'operazione bancaria, tutto nello stesso minuto... questo non ha nulla a che fare con la quantità di tempo trascorsa sullo schermo» (qui sotto, gli screenshot delle attività di un volontario nell'arco di 3 minuti).
I fatti vostri. Finora, il team ha raccolto circa 30 milioni di screenshot da 600 utenti di diversa nazionalità. Un'operazione promettente per la scienza, ma con evidenti problemi di privacy: dal cellulare passano dati bancari, abitudini d'acquisto, conversazioni private, foto di minori. Gli screenshot sono conservati in formato compresso in un server criptato a Stanford: un bunker di frammenti di vita digitale, non al sicuro da analisi al limite del voyeurismo.