Quando lo tsunami sarà passato, della COVID-19 ricorderemo i sintomi e l'entità del contagio. Ma soprattutto, resteranno i profondi sconvolgimenti che l'epidemia di coronavirus ha portato nelle regole non scritte del vivere civile: come le dolorose distanze, la sospensione dei funerali, la riscoperta dei Tricolori ai balconi e i canti delle 18.00 alle finestre. Che significato possiamo dare a tutto questo? Lo abbiamo chiesto a Lorenzo Montali, Professore di Psicologia Sociale dell'Università di Milano-Bicocca e tra i fondatori del CICAP.
Che cosa comporta la necessaria rinuncia ad alcuni rituali condivisi, come il non poter celebrare insieme funerali, matrimoni e festività religiose?
«I riti che accompagnano la morte caratterizzano l'umanità da sempre: ci sono ritrovamenti estremamente antichi che testimoniano i rituali che sanciscono il passaggio dalla vita alla morte. Questa è una costante della storia umana, anche se molto variabile nelle sue modalità.
In prospettiva storica, non è la prima volta che grandi epidemie determinano l'impossibilità di realizzare i funerali. La Peste Nera sterminò metà della popolazione europea e anche in quelle circostanze i funerali furono banditi. Durante le pestilenze veniva vietato di utilizzare la campana a morto, per l'idea che il costante richiamo della morte potesse incidere negativamente dal punto di vista psicologico; oggi, nel silenzio delle nostre città, la sirena dell'ambulanza è un rumore angosciante perché rimanda costantemente alla presenza della malattia.
La celebrazione rituale della avvenuta morte è così importante che, laddove questa non sia stata possibile, per esempio nel caso dei soldati morti in guerra, abbiamo costruito dei monumenti per sancire collettivamente il dolore, come il Milite Ignoto a Roma. In effetti il funerale è in primo luogo un'occasione per l'espressione pubblica delle emozioni associate alla perdita; dall'altra parte, serve a marcare il tema della transizione, ritualizzare il fatto che la morte è un evento irreversibile. Sancisce l'uscita di una persona da una comunità, così come il battesimo o simili rituali ne sanciscono l'entrata. È uno dei riti di passaggio, tanto più significativo perché è un passaggio irreversibile. Allo stesso tempo è il punto di partenza per la ricostruzione. Ci sono ricerche che mostrano che le persone che si sono impegnate nell'organizzazione di un funerale sono facilitate nel processo di ripresa dal lutto.
L'insieme di queste funzioni del funerale ci fa capire che se non è possibile celebrarlo, come avviene ora, viene a mancare la dimensione pubblica dell'accettazione della morte e si è costretti a una elaborazione privata del dolore, che è un'operazione più faticosa e non sempre sufficiente.
Questo perché per noi esseri umani l'interazione con gli altri è fondamentale. Tutto quello che facciamo è fatto con gli altri, insieme agli altri e in relazione ai significati che con gli altri costruiamo: gli incontri con le persone durante un funerale sono forme di socializzazione del dolore, e la socializzazione ci aiuta a trovare significati per quello che è successo».
Diversi parenti dei defunti hanno scritto lettere pubbliche ai giornali per raccontare la vita di chi è venuto a mancare.
«Tanto quanto siamo abitudinari, altrettanto sappiamo essere innovativi: capaci di trovare modi nuovi per realizzare ciò che prima facevano diversamente. E questo tratto caratterizza anche il nostro comportamento in queste settimane: gli esseri umani hanno una straordinaria capacità di adattamento, e sono capaci di adeguarsi, non senza fatiche, anche a questa nuova, stressante condizione. La resilienza è un elemento centrale che spiega il nostro comportamento. Siamo entità in costante cambiamento e contemporaneamente cerchiamo di stabilire abitudini rassicuranti».
Bandiere appese, inni: da dove rispunta questo sentimento di italianità?
«Il sentimento di italianità, nel senso di senso di appartenenza, identità sociale e condivisa è un elemento tradizionale della nostra cultura, la cui importanza si è diversamente manifestata in diverse fasi storiche. D'altra parte, questa epidemia rende visibile la dimensione sociale della nostra esistenza, un aspetto di cui siamo tendenzialmente meno consapevoli. E questo perché, vivendo in una cultura di tipo individualista, siamo socializzati a focalizzarci sui singoli individui. Per esempio, tendiamo ad attribuire successi e insuccessi ai singoli, più che al contesto in cui operano.
Con un'epidemia di questo genere invece la prospettiva cambia radicalmente, perché la dimensione sociale diventa molto visibile, molto rilevante: non bisogna uscire perché sul desiderio del singolo deve prevalere la necessità di preservare la salute pubblica. In questa situazione collettiva, nella quale le scelte di ciascuno di noi impattano sul destino degli altri, emerge la rilevanza della dimensione sociale e quindi si riscopre anche l'appartenenza a un gruppo.
Va anche detto che l'appartenenza etnica è stata da subito legata a questa epidemia, che è stata etichettata come "l'influenza cinese". Si è trattato di un grave errore perché non ha senso ridurre una malattia al luogo dove si è originata, soprattutto in un mondo globalizzato. Ma in questo modo abbiamo cercato di allontanare da noi la malattia, in maniera illusoria: è un problema degli altri.
Quando poi l'influenza si è diffusa da noi, abbiamo capito, nella contrapposizione con gli altri paesi europei, che eravamo diventati noi il gruppo bersaglio e abbiamo reagito anche riscoprendo il valore dell'italianità. In tutta questa vicenda, quindi, si è osservata una dinamica tipica della psicologia sociale: se viene attivata una categorizzazione tra gruppi sociali questo tende a determinare una riscoperta del valore dell'appartenenza e a generare contrapposizioni negative tra gli appartenenti ai due gruppi».
Tutto questo c'entra, con i flashmob sui balconi?
«I flashmob sono la riscoperta della dimensione sociale più informale: dato che non posso fare le cose che tradizionalmente faccio insieme agli altri perché sono confinato in casa, creo diverse forme di attività e di espressione, come i flashmob alle finestre o gli aperitivi su Skype. Nel flashmob c'è anche una componente di rituale propiziatorio. Cantare, suonare e mangiare insieme sono elementi che servono ad allontanare la tristezza del momento, nonché gli elementi tipici di molti rituali, dalle feste di compleanno alle celebrazioni religiose».
Come ci cambierà questa pandemia?
«Credo che sia un po' presto per rispondere. Certamente sarà uno di quegli eventi spartiacque intorno a cui organizzeremo il ricordo della nostra vita. È presto però per dire se l'impatto di questa vicenda determinerà cambiamenti rilevanti, per esempio se ci porterà a chiedere di rivedere le scelte pubbliche in tema di politica sanitaria.
Ci resterà certamente per molto tempo un sentimento di allarme, di vulnerabilità, dovuto a una percezione del rischio come qualcosa di indeterminato, nel tempo e nello spazio. È proprio questo del resto a caratterizzare il rischio nella contemporaneità. Lo dicevano già 20 anni fa gli scienziati che studiavano la percezione di temi come il nucleare: nel passato i rischi che si correvano erano locali e chiaramente determinabili; oggi sono invece globali, diventa difficile capire da che parte provengono e per quanto tempo si manifesteranno. Questo sottrae il tema della gestione o prevenzione dei rischi a una valutazione di tipo soltanto tecnico, che pure è fondamentale. Sono chiamate in causa anche valutazioni morali, come abbiamo visto con le critiche alla notizia della gestione dell'epidemia nel Regno Unito».