Psicologia

Diecimila ore di esercizio non bastano a diventare campioni

Una nuova ricerca smentisce l'ipotesi che la pratica assidua di uno sport o di uno strumento sia la strada verso l'eccellenza. Conta di più il talento innato? Sembrerebbe di sì.

Esercizio, esercizio e ancora esercizio. È quasi un luogo comune che per eccellere in qualche campo, che sia la musica o lo sport, sia necessaria una pratica intensa. Ma quanto conta l’applicazione e quanto il talento? Campioni si nasce, o si può diventare con il duro lavoro? È l’eterno dilemma.

10.000 ore. Negli ultimi tempi è diventata popolare l’idea, proposta dagli psicologi negli anni Trenta, che riuscire ad arrivare alle vette di qualche abilità deriva più dall’ostinazione e dal tempo passato a esercitarsi che da qualche forma di predisposizione innata.

Quest’ipotesi, riproposta dallo psicologo svedese Anders Ericsson, è poi diventata famosa anche presso il grande pubblico grazie al libro Fuoriclasse. Storia naturale del successo in cui il giornalista Malcom Gladwell elenca una serie di personaggi che sarebbero arrivati al successo con la pratica costante e ostinata che lui quantifica in circa “diecimila ore”.

Da qui è nata la cosiddetta regola delle diecimila ore: riuscire a diventare ottimi violinisti o tennisti sarebbe alla portata di tutti, purché si sia disposti a sudare con l’archetto o la racchetta.

Il valore del sudore. Una nuova ricerca ribalta lo scenario. Dopo aver preso in considerazione oltre ottanta studi di psicologia su come si acquisce la competenza in vari settori, che in totale hanno riguardato più di undicimila partecipanti, gli autori concludono che la “pratica deliberata” conta assai poco.

Come ha scritto l’autore del blog Brain’s Idea, che riporta la ricerca, “la regola delle diecimila ore è assolutamente insensata”.

Secondo gli autori dello studio pubblicato sulla rivista Psychological Science, la pratica spiegherebbe in media poco più del dieci per cento delle abilità acquistate in qualche attività impegnativa e (forse) del successo. Prendendo in considerazione i singoli settori, c’è comunque una grande variabilità: se nei giochi, tipo gli scacchi, la pratica conta fino al 26 per cento, nella musica si abbassa al 21, a 18 nello sport.

E per quanto riguarda i risultati accademici o il mondo del lavoro? Decisamente meno di quello che uno penserebbe: a scuola l'impregno vale il 4 per cento, e nel mondo del lavoro meno dell’1 per cento. In questo caso, però, gli autori ammettono che ci possono anche essere differenze su che cosa viene inteso per "pratica deliberata".

Un'altra considerazione degli autori - forse più scontata - è che l'aver accumulato tanta pratica conta di più nelle attività altamente prevedibili, per esempio uno sport come la corsa, che in quelle molto imprevedibili, come gestire un'emergenza pilotando un aereo.

Inutile insistere se non si è portati. Quali sono allora gli altri fattori che porterebbero ad acquisire una competenza da fuoriclasse? Senza troppo sbilanciarsi, gli autori citano l’intelligenza, abilità e predisposizioni specifiche (in quest’ottica, non si riesce a diventare ottimi violinisti non perché non si è stati costanti nell’esercizio, ma si abbandona lo strumento proprio perché ci si accorge di fare uno sforzo non premiato dai risultati) e anche l’età a cui una persona inizia a mettere un impegno serio in un settore. Può darsi che, come per il linguaggio, esistano finestre specifiche in cui è più facile diventare bravi in qualcosa: secondo uno studio, i campioni di scacchi, rispetto ai giocatori semplicemente esperti, sembrano aver cominciato prima.

28 agosto 2014 Chiara Palmerini
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