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Complotti: la covid è colpa dei test sui tamponi?

Complottisti e negazionisti negano il virus e la covid affermando che è il test sui tamponi a creare la pandemia. Un'idea basata su bugie e false premesse, pericolosa per la salute pubblica.

La principale tecnica diagnostica per valutare la presenza di SARS-CoV-2 in un campione biologico, tipicamente prelevato mediante tampone (il tampone naso-faringeo), è la RT-PCR: l'affidabilità di questa tecnica è stata più volte messa in discussione da personaggi che hanno il loro seguito nel mondo del complottismo. Tra costoro è molto gettonata l'idea che non esista alcun nuovo virus, e che per tutto questo pandemonio si debba incolpare solamente il test, che trova ciò che è predisposto a trovare. La bugia che caratterizza questa falsa lettura della realtà è che, essendo la RT-PCR una tecnica basata sulla copia del genoma virale, essa produca falsi risultati positivi dovuti ad un meccanismo di copia impreciso. Instillando il dubbio sull'accuratezza della tecnica, complottisti, negazionisti & Co. traggono forza per affermare che il genoma del virus è una bufala, che il virus non esiste e che la covid è un'invenzione per "distrarci" dai danni del 5G, dall'imposizione di vaccinazioni di massa e altre simili, tutte alimentate da quell'unica falsa premessa che tutto ciò sia causato proprio dallo strumento diagnostico, l'RT-PCR.

RT-PCR: come funziona? La PCR è una metodica ideata nel 1983 e largamente utilizzata nella diagnosi di molte patologie, non solo a carattere infettivo (Valones et al., 2009). In uno studio (Lu et al., 2020) pubblicato in agosto dai CDC americani (i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie), ente che non può certo essere accusato di collusione col "partito del coronavirus", la RT-PCR è indicata come metodologia d'elezione per la diagnosi del SARS-CoV-2, adoperata con un protocollo standard in tutto il mondo.

Questa tecnica permette di copiare tante volte, per poterlo quantificare, il genoma virale - se presente - estratto da cellule prelevate da soggetti infetti o presunti tali tramite tampone (Corman et al., 2020). Questa fase di copia, più propriamente chiamata di amplificazione, serve appunto a rendere la sequenza virale quantificabile: al termine del processo è possibile dire se c'è e in quale concentrazione (misura della carica virale).

Il meccanismo di copia è possibile grazie ai cosiddetti adattatori, sintetizzati ad hoc e in grado di riconoscere solo e solamente tre geni virali specifici per il virus che si sta ricercando, in questo caso il SARS-CoV-2 (Yu et al., 2020).

La specificità dei geni bersaglio (i tre geni virali specifici) permette di discriminare la presenza di quel virus da tutti gli altri, anche se della sua stessa famiglia: l'assenza di quei tre geni non permette il meccanismo di copia che, complessivamente, si riavvia per un totale di 45 cicli (Lu et al.

, 2020), ognuno dei quali è caratterizzato da una fase di riconoscimento degli adattatori ai tre geni target, di copia della sequenza e di distacco degli adattatori.

Nel sistema è inserito un controllo positivo di riferimento, cioè un campione sicuramente positivo. È infatti il confronto tra le risultanze sul campione biologico in esame e il controllo di riferimento a definire l'eventuale positività del campione biologico di partenza e la sua carica virale, e quindi la successiva diagnosi per la persona che si è sottoposta a quel tampone.

Il modo in cui funziona l'intero meccanismo ci dice chiaramente che è insensato pensare che si possano ottenere diagnosi positive se non ci sono tracce virali nel campione prelevato col tampone.

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L'Osservatorio della cattiva Scienza è una rubrica a cura di Simone Di Giacomo e Simona Paglia, biologi del Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie dell'Università di Bologna.

10 novembre 2020
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