Parlare è un requisito necessario per pensare? Per migliaia di anni si è pensato di sì: lo sostenevano il filosofo greco e capostipite della cultura occidentale Platone, che definiva il pensiero come "il dialogo che avviene all'interno dell'anima con se stessa", e il padre della linguistica moderna Noam Chomsky, che negli anni '60 scriveva che usiamo il linguaggio per il ragionamento, e che «se c'è un deficit grave nel linguaggio, ci sarà un deficit grave nel pensiero».
Non un prerequisito per il pensiero complesso. Ora però uno studio durato 15 anni di un team di linguisti e neuroscienziati del MIT mette in dubbio questa teoria. In base alla ricerca, guidata dalla neuroscienziata cognitiva Evelina Fedorenko e pubblicata su Nature, il linguaggio è principalmente uno strumento di comunicazione e non di pensiero. La prova? Individui reduci da lesioni cerebrali che hanno danneggiato le capacità linguistiche restano comunque in grado di portare avanti ragionamenti di altro tipo: riescono per esempio a svolgere compiti algebrici e a giocare a scacchi.
Soltanto un'illusione. Nel 2009, quando Fedorenko iniziò a dedicarsi a questo problema, gli esami di imaging cerebrale sembravano mostrare una sovrapposizione tra le aree dedicate al linguaggio e quelle necessarie per elaborare pensieri di altro tipo, come ragionare o risolvere problemi matematici. Ma - come spiega ora un articolo pubblicato sul New York Times, in seguito emerse che questa "coincidenza" di aree dedicate era, di fatto, un miraggio. All'epoca le scansioni cerebrali ottenute erano ancora grossolane, e gli scienziati erano costretti a combinare i risultati ottenuti da tutti i volontari, arrivando a una sorta di "attivazione media".
Un network specializzato. Negli anni successivi, strumenti più precisi e ricerche mirate su ogni volontario hanno permesso di ottenere fotografie più realistiche di come lavora un singolo cervello. Gli scienziati hanno individuato specifiche regioni cerebrali che si attivano soltanto quando i volontari in risonanza magnetica funzionale (fMRI) analizzano il linguaggio vero e proprio - e non, per esempio, parole in una lingua inesistente. Questo network del linguaggio rimane stabile nel tempo: si attiverebbero le stesse aree se vi analizzassero oggi e, poniamo, tra 15 anni. Ma rimane silenzioso e inattivato quando quegli stessi volontari sono sottoposti a compiti di ragionamento diversi da quello linguistico, come per esempio risolvere un puzzle.
Altri tipi di pensiero. Attività di pensiero diverse da quelle linguistiche non coinvolgono quindi necessariamente il network del linguaggio. Gli studi sulle persone reduci da ictus o altre cause di danno cerebrale portano alle stesse conclusioni.
Nel nuovo lavoro su Nature, Fedorenko e colleghi hanno scoperto che le persone con afasia, la perdita della capacità di comporre e comprendere il linguaggio dovuta a lesioni alle aree del cervello dedicate, sono comunque in grado di mettere i numeri in ordine crescente o di giocare a scacchi.
Capire e farsi capire. A cosa serve, dunque, il linguaggio? A comunicare, dice Fedorenko. Anche se, ammette, come sosteneva Chomsky, alcuni aspetti funzionali del linguaggio come strumento di comunicazione rimangono non ben ottimizzati: per esempio, le parole nascondono spesso ambiguità. Questa funzione del linguaggio è comunque sostenuta da un intero filone di studi, che evidenzia come le parole più spesso utilizzate siano anche più corte, o come le regole della grammatica di decine di lingue al mondo tendano ad avvicinare le parole in modo da rendere la loro comprensione più semplice.
Una chiave di interpretazione. Il dibattito potrebbe avere risvolti di pensiero interessanti anche per il settore dell'IA. Kyle Mahowald, linguista dell'Università del Texas sentito dal New York Times, sottolinea che separare la capacità di parlare da quella di pensare potrebbe aiutare a spiegare come mai i sistemi di IA come ChatGPT siano molto bravi in alcuni compiti, come quelli di fluidità verbale, ma ancora molto goffi in altri che coinvolgono il ragionamento.