Diciamoci la verità: perdere fa male. E tutti conoscono qualcuno che non sa perdere. Un amico che smette di giocare proprio quando capisce che non avrà la meglio. Una persona che dopo aver perso una competizione mostra irritazione e magari se la prende con l'avversario, con le regole o con chi deve farle rispettare (come il giudice di gara), trovando mille scuse per incolpare tutto e tutti tranne che se stesso per la propria sconfitta. Che cosa induce a comportarsi in modo tanto infantile e irrazionale? La scienza ha individuato specifiche ragioni, di cui i cattivi perdenti dovrebbero tener conto. Perché una cosa è certa: saper perdere conviene.
Che dolore! Dal punto di vista neurologico, è come sbattere la testa contro lo stipite di una porta a tutta velocità. Lo ha osservato il neuroscienziato Maarten Boksem che insegna alla Rotterdam School of Management dell'Erasmus University. Usando uno scanner per la risonanza magnetica ed elettrodi per elettroencefalogramma ha monitorato il cervello di volontari che si sono sfidati in un gioco in laboratorio. Così ha visto che quando si perde il cervello reagisce in modo molto simile a quando si prova un dolore intenso.
A livello psicofisiologico si innesca una reazione di stress, ci si sente malissimo ed è come se il cervello dicesse: «D'ora in poi evita di trovarti in una situazione simile, per non stare ancora così male dovrai vincere». In questo processo è in gioco la zona del cervello detta "corteccia cingolata anteriore", che funziona come una sorta di sistema di allarme: genera sensazioni negative che spronano a rimettersi in riga, imparando dai propri errori.
io Sono meglio di te. Ciò significa che siamo neurologicamente programmati per aspirare alla vittoria: non soccombere nelle competizioni e centrare i propri obiettivi (come riuscire a procacciarsi il cibo) per i nostri antenati equivaleva a sopravvivere. Questo impulso arcaico a evitare di perdere continua a funzionare ma, per quanto alcuni vivano ancora le sfide come una questione di vita o di morte, in ballo c'è "solo" lo status sociale.
Migliorare o mantenere la propria posizione e, soprattutto, non essere in svantaggio rispetto a qualcun altro. Tant'è che smarrire 10 euro per strada non è altrettanto doloroso che perderli in una scommessa. Perché non è una questione di soldi. Lo prova il già citato esperimento di Maarten Boksem: tutti, vincenti e perdenti, alla fine hanno ricevuto 50 euro ma i secondi hanno continuato a sentirsi arrabbiati e imbarazzati per la sconfitta.
E non è detto che il fair play del vincitore migliori le cose, anzi: da una ricerca dell'Augustana College, in Illinois, è risultato che gli sconfitti valutano più negativamente le proprie performance se i vincitori offrono di condividere il premio con loro, come se questo sancisse ulteriormente la loro "inferiorità" al cospetto di chi è risultato migliore. Ma è altrettanto vero che perdere non è per tutti un boccone ugualmente amaro. Sull'essere buoni perdenti pesano fattori come la stima che si ha di sé (se prescinde dai risultati che si ottengono), l'accettazione dei propri limiti e l'etica personale: chi si identifica con valori come rispetto per l'altro, equità ed uguaglianza potrà permettersi di perdere senza per questo sentirsi un fallito. All'opposto, chi divide gli esseri umani in "vincenti" e "perdenti" può essere disposto a fare carte false pur di sentire di appartenere al primo gruppo.
Non si ammette la sconfitta. Perché si può arrivare a negare una sconfitta anche quando la sfida è palesemente persa? «I tratti della personalità contano. Il narcisismo è uno di questi. In particolare, chi presenta un tratto chiamato "narcisismo grandioso" può avere difficoltà a tollerare o, addirittura, a comprendere di non aver vinto», afferma la psicologa Evita March, docente alla Federation University Australia. I narcisisti "grandiosi" sono competitivi, dominanti, sopravvalutano le proprie qualità, credono di essere speciali e meritevoli di ammirazione, svalutano chi mina la loro autostima, pretendono di avere diritti esclusivi e trattamenti di favore come se a loro fosse tutto dovuto.
La sconfitta è una minaccia per l'immagine "gonfiata" che hanno di sé (dietro cui si nasconde una profonda insicurezza). E genera nelle loro menti ciò che lo psicologo statunitense Leon Festinger ha definito "dissonanza cognitiva": lo stato mentale che si crea quando si entra in contraddizione con se stessi ("Se sono il migliore non posso aver perso"). Per evitare il disagio che ne deriva alcuni moltiplicano gli sforzi pur di mantenere le proprie convinzioni anche di fronte a prove contrarie schiaccianti ("non ho perso davvero"), sfogano il malessere con gesti di stizza o adottano strategie che rendono la sconfitta più sopportabile: dare la colpa alle circostanze, al sistema, all'incompetenza o disonestà di qualcuno.
Di chi è la colpa? Succede spesso anche nello sport che atleti (e tifosi) perdenti sostengano di essere stati svantaggiati, di aver combattuto contro avversari scorretti e, in generale, che la sconfitta sia dovuta a fattori esterni come l'arbitraggio o la sfortuna.
È il cosiddetto "self-serving bias": un comune errore di giudizio per il quale ci si percepisce in modo irrealisticamente favorevole, attribuendosi i meriti dei successi ma non la responsabilità dei fallimenti.
Può scattare nello studio, nel lavoro, nella relazione con gli altri (anche se c'è chi lo inverte dandosi invece la colpa di tutto). Aiuta a sentirsi meglio ma poi ha un effetto boomerang: «Le ricerche hanno provato che le attribuzioni esterne per le perdite hanno un primo effetto positivo sull'umore e sull'autostima ma in seguito gli atleti soffrono di stati di cattivo umore come rabbia, depressione e tensione», spiega Katie Sparks, psicologa dello sport dell'Università di Birmingham.
Se e si crede che l'esito sia indipendente dal proprio comportamento non si può fare autocritica, imparare dall'esperienza e individuare strategie alternative: «Un fattore esterno (come la decisione di un arbitro o il sistema di voto difettoso a cui Trump attribuì la sconfitta) può promuovere emozioni negative come la rabbia, poiché questi fattori sono incontrollabili e l'individuo non può modificarli».
Come un autogol. Alla fine degli anni '90 lo spot di una multinazionale di abbigliamento sportivo (Nike) rappresentava Michael Jordan come un ex perdente. La voce della leggenda del basket, allora all'apice del successo, recitava: «Nella mia carriera ho sbagliato più di novemila tiri. Ho perso quasi trecento partite». E ancora: «Nella vita ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto». Un messaggio d'effetto servito a vendere scarpe, ma che esprime una verità innegabile: per vincere occorre saper perdere. Gli studi di John Dunn, psicologo dello sport dell'Università di Alberta (Canada), hanno stabilito che accettare di buon grado gli errori è la condizione per migliorare le proprie performance. «Gli atleti che pensano che il fallimento non sia un'opzione finiranno per sperimentare una qualche forma di esaurimento emotivo o accumuleranno livelli incredibili di pressione ambendo a uno standard di perfezione irraggiungibile, saranno sempre emotivamente esausti perché niente di quello che fanno è mai abbastanza buono», afferma Dunn.
Vale in ogni ambito della vita: non saper perdere abbatte e fa sentire impotenti, aggiungendo solo ulteriori svantaggi. Compresi danni alla propria immagine a cui tanto i cattivi perdenti mostrano di tenere: mentre si agitano per riscattarsi dall'insuccesso non si accorgono di apparire come bambini. Quindi, meglio accettare di aver perso prima che l'imbarazzo per la propria reazione superi il disagio per la sconfitta.
Tratto dagli archivi di Focus. Perché non ti abboni?