1. Che cos’è la BREXIT? Il termine BrExit è l’acronimo di Britain Exit ed è utilizzato dai media per indicare la potenziale uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Il prossimo 23 giugno i cittadini britannici esprimeranno infatti, attraverso un referendum, la volontà di rimanere nell’Unione Europea o di lasciarla.
2. Come mai il regno unito vota un eventuale uscita dall’ UE? Nel 2015, durante la campagna elettorale, David Cameron promise agli elettori che se lo avessero confermato Primo Ministro avrebbe organizzato una consultazione popolare sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea.
Cameron aveva messo in discussione alcuni vincoli imposti dall’UE su temi di politica estera ed economica. In particolare aveva negoziato alcuni punti, tra i quali:
3. Se vincerà il “Sì” che cosa succederà dal 24 giugno? Nell’immediato non cambierà praticamente niente. Il referendum è consultivo e non ha alcun valore legale per il Parlamento. È ovvio però che non dare ascolto alla voce degli elettori per Cameron e per i suoi sarebbe un vero suicidio politico.
In caso di vittoria del Sì il governo britannico dovrà quindi ridiscutere con l’UE tutti i trattati che ha siglato e trovare un accordo sulle condizioni dell’uscita. Secondo gli analisti questo processo potrebbe richiedere fino a due anni di lavoro, durante i quali il Regno Unito sarà ancora membro dell’Unione Europea ma non parteciperà alla stesura di nuove leggi.
4. Ma quindi non è possibile uscire dall’Unione Europea nel giro di una notte? Assolutamente no. I rapporti tra l’UE e i gli stati membri sono regolati da un complesso insieme di leggi, le più importanti delle quali riguardano il libero spostamento di merci e persone da un paese all’altro. Un’impresa italiana può esportare liberamente in Francia senza pagare dazi, così come un cittadino francese può andare a lavorare in Spagna senza bisogno di permessi.
Se il Regno Unito uscisse dall’UE nel giro di poche ore, milioni di cittadini e migliaia di imprese si troverebbero bloccate in situazioni legali inconsitenti e dalle conseguenze imprevedibili.
5. Chi è a favore e chi contro la Brexit? David Cameron, dopo aver proposto il referendum, si è schierato contro la Brexit poichè ritiene di essere riuscito a negoziare con Bruxelles sufficienti garanzie in merito all’indipendenza del Regno Unito in materia di politica estera ed economica.
Molti ministri del suo governo sono dalla sua parte anche se ufficialmente il Partito Conservatore, di cui Cameron fa parte, si è dichiarato neutrale sul tema.
Dichiaratamente contro la Brexit si sono schierati i laburisti, i liberal democratici, il Partito Nazionale Scozzese e quasi tutti i leader europei e internazionali tra cui il cancelliere tedesco Angela Merkel, il presidente francese François Hollande e il presidente USA Barack Obama.
Sostengono l’uscita dall’UE il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, circa la metà dei conservatori e cinque ministri del governo Cameron.
6. Quali sarebbero, per i sostenitori della Brexit, i vantaggi derivanti dall’uscita del Regno Unito dall’UE? I partiti e gli esponenti politici favorevoli all’uscita del Regno Unito dall’UE sostengono che l’influenza di Bruxelles sulle politiche del paese sia di fatto insostenibile e costi miliardi di sterline senza dare niente in cambio. Inoltre, porre alcuni limiti alla libera circolazione delle persone ridurrebbe il flusso di migranti che ogni anno sbarcano in Gran Bretagna in cerca di lavoro.
7. Ci sono precedenti? No, fino ad oggi nessun paese è mai uscito dall’Unione Europea, ma nel 1982 la Groenlandia, territorio della Danimarca, approvò con un referendum l’uscita dall’UE in seno alle maggiori autonomie concesse dal governo danese all’amministrazione locale.
8. Che cosa succederà all’Italia in caso di vittoria del sì? Per il nostro Paese, in caso di vittoria del Sì e di uscita del Regno Unito dall’Europa, le conseguenze saranno soprattutto economiche e occupazionali. Parte dei 600.000 italiani che lavorano in Gran Bretagna potrebbero essere costretti a tornare in Italia così come una fetta dei 20.000 cittadini britannici che in Italia vivono e lavorano: chi resterà dovrà ottenere un permesso di soggiorno, e a oggi non è possibile dire quali saranno le regole e le condizioni.
Molte aziende italiane che esportano nel Regno Unito dovranno fare i conti con i dazi doganali che renderanno i nostri prodotti meno competitivi, così come per noi diventeranno più cari i farmaci, i servizi finanziari, le tecnologie per le energie rinnovabili e le automobili che acquistiamo dal Regno Unito.
In caso Brexit gli economisti si aspettano una svalutazione della sterlina rispetto alle altre monete: per gli stranieri sarà più conveniente andare a fare le vacanze a Londra e gli inglesi pagheranno un po' di più i prodotti di importazione.
9. Come la pensa sul tema il mondo scientifico? La maggior parte del mondo accademico britannico è schierata per il NO.
Da un sondaggio lanciato da Nature su 907 ricercatori inglesi attivi, l’83% si è detto convinto di voler restare nella UE.
La pensano così anche l’84% dei membri del Science Council, un’organizzazione che raggruppa circa 450 mila scienziati e ricercatori, e 150 membri della Royal Society, tra i quali anche Stephen Hawking, che in una lettera al Times hanno definito l’eventuale uscita dall’Europa “disastrosa”, soprattutto per le nuove generazioni di ricercatori.
In un’altra lettera pubblicata su Telegraph, 13 Premi Nobel britannici tra cui Peter Higgs e Sir Paul Nurse (direttore del Francis Crick Institute ed ex presidente della Royal Society) hanno scritto che la Brexit comprometterebbe la libera circolazione di idee e ricercatori nel Regno Unito, e metterebbe a rischio i (cospicui) finanziamenti alla ricerca che il paese riceve dall’Europa.
Questi finanziamenti ammontano al 16% del totale dei fondi europei previsti per la ricerca da quando è iniziato il progetto Horizon2020. Dal 2006 al 2015, Il Regno Unito ha ricevuto l’equivalente di 10 miliardi di euro in assegni di ricerca dall’UE. Poiché è tra i Paesi più ricchi d’Europa, contribuisce per il 12% al budget totale della UE per la ricerca scientifica, ma riceve sotto forma di finanziamenti una fetta pari al 15% del totale. Prende quindi più di quello che versa, e anche grazie ai fondi europei è diventata uno dei paesi leader nella fisica, nelle nanotecnologie, nelle neuroscienze e nella medicina: basti pensare che il 40% dei fondi investiti dall’UK per la ricerca sul cancro nell’ultimo decennio, 163 milioni di euro, è di provenienza UE.
Gli scarsi finanziamenti interni (circa l’1,7% del PIL, al di sotto della media europea) non riuscirebbero a compensare il danno economico, anche perché in caso di Brexit, sarebbero assorbiti da altri settori, per sanare i contraccolpi economici della decisione. E anche se altri paesi non UE (come Israele, l’Islanda o la Norvegia) beneficiano dei fondi del programma Horizon2020, soltanto il 7,2 % dei finanziamenti UE finisce fuori dall’Unione.
10. Che cosa accadrebbe ai ricercatori? Le ragioni economiche non sono tutto. Quello scientifico è oggi più che mai un settore internazionale, multidisciplinare, che si alimenta di scambi di persone e di idee. Il Regno Unito ospita oggi il 4% del totale degli scienziati mondiali, giovani menti brillanti che contribuiscono al 16% degli articoli scientifici più citati prodotti nel Paese. In caso di Brexit, per queste persone lavorare diverrebbe molto più difficile: i ricercatori europei avrebbero bisogno di un permesso di soggiorno e subirebbero i contraccolpi economici della svalutazione della sterlina.
La Gran Bretagna diverrebbe una meta meno appetibile per questo settore, che irrevocabilmente, con la restrizione della libera circolazione e quindi dell’arricchimento dei suoi ricercatori, si chiuderebbe su se stesso. Se il Regno Unito decidesse di uscire dall’UE, anche la cooperazione scientifica con gli altri paesi membri sarebbe più difficile.
Ha collaborato Elisabetta Intini