La globalizzazione ha rivoluzionato la produzione e il consumo di alimenti con diete che si sono di molto diversificate sulla scia di una disponibilità di cibo aumentata sull'intero pianeta. Una delle conseguenze è che la maggior parte della popolazione mondiale deve dipendere, in buona parte, da alimenti di importazione, provenienti da Paesi anche molto lontani. Questo accade non senza ricadute, alcune fortemente negative, come la crescente vulnerabilità alimentare di alcune nazioni - evidente in situazioni come l'attuale pandemia da covid, per esempio, che con l'interruzione di alcune catene di approvvigionamento alimentare improvvisamente mostra ai cittadini (metropolitani e non) gli scaffali vuoti dove prima si potevano "cogliere" alimenti comuni.
Pekka Kinnunen(Aalto University, Finlandia), coordinatore di un team internazionale di ricercatori che ha preso in esame le distanze geografiche tra zone di produzione e di consumo per sei diffuse coltivazioni a livello mondiale, afferma che «La situazione nel mondo è estremamente disomogenea tra coltivazioni locali e prodotti che devono essere importatida lontano: ad esempio, in Europa e nel Nord America la maggior parte dei cereali si può ottenere per lo più entro un raggio di 500 chilometri dalle zone di consumo, mentre la media globale è di ben 3.800 chilometri».
Lo studio (pubblicato su Nature Food) traccia le mappe della distanza tra produzione agricola e luoghi dove vengono consumati quei prodotti, per due differenti scenari: il primo è quello attuale, il secondo ipotizzando che le catene di produzione diventino più efficienti grazie alla riduzione degli sprechi e al miglioramento delle tecniche agricole. Lo studio si focalizza su sei gruppi di alimenti chiave per l'uomo: cereali da clima temperato (grano, orzo, segale), riso, mais, cereali da clima tropicale (miglio, sorgo), radici tropicali (manioca), legumi.
Effetti collaterali. Nel migliore degli scenari solo il 27 per cento della popolazione mondiale ottiene i propri cereali "temperati" da zone di coltivazione entro un raggio di 100 chilometri; il 22 per cento per i cereali "tropicali"; il 28 per cento per il riso; il 27 per cento per i legumi - mentre per il mais e le radici tropicali le percentuali scendono rispettivamente all'11 e al 16 per cento. A seconda delle coltivazioni, dal 27 al 64 per cento della popolazione mondiale risiede invece a oltre 1.000 km dalle zone di produzione.
Per saziare la nostra fame è dunque inevitabile appoggiarsi a produzioni agricole che possono trovarsi a migliaia di chilometri dai luoghi di maggiore consumo? Il cibo a chilometro zero o quasi è un sogno irrealizzabile?
Purtroppo, il nostro attuale modello di sviluppo è impietoso, sostiene Matti Kummu, uno dei ricercatori: «La possibilità di coltivare ciò che è necessario molto vicino a chi lo consuma avrebbe effetti benefici importanti per l'ambiente, per esempio sul fronte della riduzione delle emissioni di gas serra.
Tuttavia, avrebbe anche importanti e gravi ripercussioni dal punto di vista della reperibilità idrica, soprattutto in prossimità di aree densamente popolate. E se si verificassero siccità e carestie prolungate, la sicurezza alimentare verrebbe meno e assisteremmo a migrazioni di popolazioni su scala mai vista prima».