Il benessere soggettivo, ossia il grado di soddisfazione espresso da ciascuno per la propria esistenza e per le prospettive future, è legato a una migliore qualità di vita, a minori problemi di salute e a una maggiore produttività: anche per queste ragioni gli studi sulla "felicità nazionale" stanno godendo di grande considerazione presso i governi di tutto il mondo.
Si tratta però di un credito recente: se per il PIL esistono serie storiche già dall'Ottocento, le prime valutazioni del benessere soggettivo risalgono agli anni '70 del Novecento, e il primo Rapporto globale sulla Felicità (World Happiness Report) redatto dalle Nazioni Unite e dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) è del 2011.
Qual era il benessere soggettivo percepito cento, duecento anni fa? Ci stiamo muovendo in una direzione politica che accentuerà, o diminuirà la felicità globale delle nazioni? Uno studio appena pubblicato su Nature Human Behaviour prova a ricostruire i livelli di felicità nazionale percepita in quattro Paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Italia) negli ultimi due secoli, a partire dall'analisi delle parole usate nei testi dell'epoca: libri e giornali digitalizzati raccolti in Google Books, un database che permette di esaminare la frequenza di qualunque parola in una collezione di 8 milioni di libri del passato, oltre il 6% della totalità dei libri pubblicati.
Termometro linguistico. Thomas Hills (Università di Warwick / The Alan Turing Institute), Eugenio Proto (Università di Glasgow), Daniel Sgroi (Università di Warwick) e Chanuki Seresinhe (The Alan Turing Institute) sono partiti dalla considerazione che spesso libri e giornali rispecchiano l'umore di un'epoca, un po' come oggi fanno anche tweet e post su Facebook. Il team ha così analizzato la positività delle parole di migliaia di termini ottimistici e pessimistici utilizzati nei testi scritti dal 1820 al 2009, tenendo anche conto dell'evoluzione del linguaggio e del cambiamento di significato di molti termini nel tempo.
In particolare, è emerso che:
Gli indici dell'umore di una nazione ricavati dai termini usati nei libri corrispondono a quelli che emergono dagli articoli di giornale.




La storia della felicità in Italia. Spiega a Focus.it Eugenio Proto, professore di Economia applicata ed Econometria all'Università di Warwick, tra gli autori dello studio: «Guardando la serie storica italiana si nota un primo picco di infelicità nel 1848, poi un incremento fino all'Unità d'Italia, seguito da un nuovo calo, forse dovuto ai disordini politici di quegli anni.
Un nuovo incremento fino al 1875 è seguito da una nuova discesa, forse legata alle aspettative deluse. L'inizio del '900, con la Belle Époque, il positivismo e i primi importanti risultati scientifici vede un nuovo incremento del benessere percepito, seguito da un calo netto durante la Prima Guerra Mondiale.
Un lento ma costante declino si nota negli anni del Fascismo, un fatto di cui si può dare una lettura politica. Con la Seconda Guerra Mondiale la felicità percepita sembra scendere meno in Italia e Germania rispetto ad altri Paesi - probabilmente per effetto della censura che impedisce di veicolare concetti troppo tristi nei testi. Infine notiamo un rebound nel dopoguerra, con il boom economico, una nuova ripresa negli anni '80 e un crollo velocissimo, più grave che altrove, con la recente crisi economica.»
Resilienza. Il benessere soggettivo appare incredibilmente resiliente ad eventi positivi e negativi: cala per effetto delle guerre e delle recessioni, aumenta nei periodi più fortunati, ma sono fluttuazioni temporanee: si tende a tornare velocemente al livello di felicità percepito prima di questi eventi.
«Questo effetto detto di habituation è noto, in letteratura», chiarisce Proto: «a livello individuale si sa che anche dopo la perdita di un partner si affronta un periodo fortemente negativo, ma dopo due o tre anni si torna al livello di partenza. L'effetto si nota anche in persone che perdono l'uso delle gambe ed è probabilmente una dote necessaria alla nostra sopravvivenza. Dato significativo, non si osserva nelle persone disoccupate. In quel caso, fino al raggiungimento di un nuovo impiego il soggetto continuerà a dichiarare bassi livelli di soddisfazione. Vale invece anche in positivo: un aumento netto di stipendio altera positivamente l'umore per un paio d'anni, poi ci si abitua. Evidentemente era così anche nel passato, anche se nessuno è qui per raccontarcelo.»