L'Amazzonia brucia da settimane. Dalle piazze di tutto il mondo milioni di persone invitano il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ad agire con forza contro i grandi proprietari terrieri che non esitano a dare alle fiamme ettari ed ettari di foresta per far spazio a nuove coltivazioni. Bolsonaro, all'Onu (24 settembre) risponde di non immischiarsi, perché «l'Amazzonia non è patrimonio dell'umanità, è dei brasiliani».
Qual è il volano che alimenta questo apparentemente inarrestabile bisogno di terra da parte delle grandi imprese agricole brasiliane?
La guerra della soia. Lo spiegano con estrema chiarezza i numeri relativi al commercio internazionale di soia: nel 2015 il principale acquirente della soia prodotta negli Stati Uniti era la Cina, che la usa come alimento base per i maiali, di cui è il primo allevatore e consumatore mondiale. Tre anni dopo, nel 2018, l'export verso Pechino del legume a stelle e strisce era crollato del 98%, a causa della guerra commerciale tra USA e Cina innescata a suon di dazi doganali dal presidente Donald Trump.
Nell'aprile dello scorso anno Trump ha infatti inasprito le tasse sull'importazione negli States dei prodotti cinesi; colpo su colpo, le contromisure cinesi hanno incluso anche un dazio del 25% sull'importazione della soia made in USA.
Il terzo gode. Mentre i due giganti litigano, Bolsonaro ne approfitta rifornendo i magazzini cinesi con la sua soia tax-free, guadagnando popolarità, e voti, presso i grandi proprietari terrieri del suo Paese. La deforestazione dell'Amazzonia per fare spazio ad allevamenti e terreni coltivabili non è una novità, anzi, è cosa vecchia di decenni, ma in tempi recenti ha subito una decisa e rapida accelerazione. Bolsonaro, al pari di Trump, è noto per le sue posizioni non propriamente ecologiste, così come il suo governo.
Poche settimane fa il ministro brasiliano dell'ambiente, Ricardo Salles, ha dichiarato alla stampa che l'unica soluzione per salvare l'Amazzonia è monetizzarla. Come? Aprendo alle miniere e allo sfruttamento turistico, con villaggi e strutture ricreative, così da sottrarre risorse allo sfruttamento illegale come il traffico di legname o la coltivazione di piante di coca e marijuana.
Pagare per respirare. Le idee del governo Bolsonaro sulla gestione della più grande area verde del pianeta sembrano comunque sempre più confuse: lo scorso luglio il ministro dell'economia, Paulo Guedes, ha chiesto di mettere a punto un meccanismo che permetta al Brasile di negoziare con gli altri Paesi l'ossigeno prodotto dalla Foresta Amazzonica, in una sorta di borsa dell'O2 contro CO2. In pratica, vorrebbe acquistare quote di CO2 dai Paesi inquinatori e vendere loro metri cubi teorici di puro ossigeno.
Nel frattempo, mentre i politici discutono, la foresta pluviale più grande del pianeta rimane schiacciata da una crisi ampiamente prevedibile: la politica di Trump ha contribuito a impoverire gli agricoltori statunitensi e a innescare una delle più grandi catastrofi ambientali degli ultimi anni.
I numeri del danno. La strettissima correlazione tra gli incendi e il mercato della soia era stato ipotizzato ed evidenziato già alla fine dello scorso marzo dagli analisti del Karlsruhe Institute of Technology, ma l'allarme è rimasto inascoltato, con un costo ambientale enorme. Secondo gli scienziati, gli incendi nella foresta Amazzonica, che è la casa del 10% di tutte le specie animali osservabili sulla Terra (oltre che di un numero imprecisabile di specie ancora sconosciute alla scienza), hanno già rilasciato nell'atmosfera una quantità di CO2 pari a quella emessa in un anno da 22 milioni di auto. E ci sono anche i diritti umani, quelli delle inascoltate popolazioni indigene cacciate (per il loro bene) dai loro territori da militari-pompieri inviati da Bolsonaro per mostrare al mondo che sa tenere sotto controllo la situazione.
La soluzione a questa crisi non può che essere politica e globale, nel senso che una rinnovata Lega delle Nazioni (così si chiamava l'ONU prima di diventare quello che è oggi) dovrebbe prendere in mano la situazione: speriamo che qualcuno ci arrivi prima che l'ultimo albero finisca in cenere.