Economia

COP21: il mercato globale è ospite d'onore alla conferenza sul clima

La sfida è tra 2 e 4 °C: di quanto lasceremo che si scaldi la Terra a causa nostra? Alla COP21, conferenza di Parigi sul clima, sarà scontro tra posizioni di buon senso e poteri forti dell'economia: ecco una guida per interpretare questo scenario.

Alla vigilia della conferenza sul clima di Parigi, la COP21, tutti i partecipanti hanno già ufficializzato la loro posizione rispetto alle misure che ritengono necessarie e praticabili per contenere l'aumento della temperatura globale.

Quello che si prospetta è - ancora una volta - un accordo di compromesso inadeguato, condizionato da Paesi forti e multinazionali, mentre altre proposte, eccellenti, come quella dell'insieme dei Paesi dell'Unione Europea, rischiano di restare "buone intenzioni" inascoltate.

Quanto segue è frutto di un confronto con Andrea Barbabella, responsabile energia della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, al quale abbiamo chiesto di aiutarci a leggere lo scenario economico che fa da cornice alla conferenza sul clima.

Gli inglesi li chiamano stake holder, cioè portatori di interessi. Sono nazioni, società, enti e altri organismi che interverrano nella XXI Conferenza delle Parti (COP21) di Parigi, in rappresentanza di popoli, complessi industriali e organismi sovranazionali che potrebbero essere favoriti o colpiti dalle decisioni sul futuro cambiamento climatico. Molte delle decisioni al vaglio a Parigi saranno influenzate dalle pressioni degli stake holder, e fino alla fine del meeting internazionale l'esito sarà in bilico.

«Si da per scontato che tutti siano d'accordo - almeno sulla carta - sull'obiettivo di contenere l'aumento della temperatura globale entro i 2 °C, ma gli impegni presi finora non sono sufficienti e gli orientamenti sulle modalità per raggiungerli molto diversi».

L'accordo dovrebbe essere legally binding, come si dice in linguaggio diplomatico, ossia legalmente vincolante: dovrebbe cioè obbligare gli Stati a osservare le disposizioni che usciranno da Parigi. Una prima bozza di accordo globale è stata depositata alla fine di ottobre, e su questa si ragionerà, durante la conferenza.

Ancora un rinvio? Tuttavia l'approccio adottato a Copenaghen (COP-15, nel 2009), fortemente orientato a imposizioni dall'alto definite e calcolate secondo vari parametri, è stato abbandonato. A Parigi, invece, l'indirizzo è quello dei cosiddetti INDC (Intended Nationally Determined Contributions), in pratica "promesse" che i singoli Stati hanno fatto sulla diminuzione delle emissioni. L'insieme di queste intenzioni non è al momento sufficiente a limitare l'aumento di temperatura a 2 °C: secondo le Nazioni unite porterebbero ad un aumento di circa 3 °C alla fine del secolo. Troppo.

«In definitiva è probabile che si arriverà a licenziare un accordo», è l'opinione di Barbabella, «ma questo difficilmente consentirà di rispettare il limite dei 2 °C e si rimanderà, forse, a un aggiornamento successivo per alzare le ambizioni».

La posizione dei singoli Paesi, ossia le promesse che 149 nazioni hanno steso prima di cominciare a discutere, sono determinate dalle prospettive politiche dei governi stessi.

Prospettive che dipendono da una serie di fattori: dagli interessi politici alla pressione delle industrie, dalle istanze dei cittadini a quelle delle grandi associazioni e organizzazioni, fino alle prospettive a breve o lungo termine dei politici e persino dalle reali conoscenze e competenze dei politici stessi.

Chi frena e chi corre. Questa mappa interattiva del World Resource Institute entra nel dettaglio della posizione dei partecipanti. "India, Stati Uniti e Cina per la prima volta hanno assunto formalmente impegni di riduzione o contenimento delle emissioni, ma questi sono ancora troppo prudenti. L'Europa invece è molto intraprendente: promette di ridurre le emissioni almeno del 40% rispetto al 1990, tra i pochi impegni sul tappeto, forse l'unico, in linea con il limite dei 2 °C. Una promessa impegnativa, che in molti ritengono un freno all'economia perché ostacola l'industria con pesanti obblighi e costose tecnologie di riduzione dei gas serra, diminuendo la competitività dei Paesi dell'Unione nel mercato globale. Su questo punto, però, Barbabella fa una riflessione differente: «Quello della competitività è un falso problema. Ragionare in termini di blocco delle emissioni come ostacolo al progresso è un approccio che si poteva utilizzare anni fa. Oggi i Paesi più competitivi sono proprio quelli che investono di più nelle fonti rinnovabili o nell'efficienza energetica, come il Nord Europa e la Germania».

A livello mondiale gli investimenti finanziari e in ricerca sui metodi "classici" di produzione dell'energia, dal carbone al gas naturale, sono stati superati da quelli sulle fonti rinnovabili. Sul fronte della ricerca, in Italia, per esempio, l'Enel ha dichiarato che nel 2050 avrà "zero emissioni" e produrrà energia solo da fonti rinnovabili. Sul versante dei flussi finanziari, in tutto il mondo gli investimenti si stanno spostando verso le rinnovabili, e molti fondi di investimento e fondi pensione stanno disinvestendo dalle industrie del petrolio e del carbone. Il Divestment movement spinge banche e privati a non utilizzare i loro fondi in aziende che si occupano di combustibili fossili. Alla fine di novembre i fondi disinvestiti ammontano a 2,6 trilioni di dollari.

I vantaggi del rischio finanziario. Tutto questo prescinde dall'aspetto etico, e dipende soprattutto dal fatto che le tecnologie per le energie alternative sono diventate competitive sul mercato in questi ultimi anni e che gli investimenti sui combustibili fossili, secondo i rating delle banche, stanno diventando un rischio. Anche l'Italia si muove in questo senso: mercoledì 25 novembre è stato presentato al ministro Galletti, dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, l'appello contenente sette proposte per raffreddare il clima, sottoscritto da molte industrie italiane.

A livello mondiale molte multinazionali chiedono che il quadro legislativo sia più chiaro e soprattutto che si applichi una carbon tax, cioè una tassa applicata al contenuto di carbonio dei combustibili: più elevato è il contenuto, più alta è la tassa.

La sagoma del China Central Television building avvolta in un manto di nebbia e smog. L'inquinamento dell'aria (pollution, in inglese) è uno degli effetti visibili delle attività industriali, degli impianti di riscaldamento nelle grandi aree urbane, dei trasporti: dell'uso, insomma, dei combustibili fossili. Non è certo tipico della Cina, anche se in questo Paese assume a volte proporzioni spaventose: in Nord Italia, basta guardare verso la Pianura Padana dalle colline bergamasche per rendersene conto. Investimenti in ricerca e in nuove tecnologie per l'energia possono contribuire a ridurre questi effetti. © Jason Lee/Reuters

Perché quindi paesi-locomotiva dello sviluppo, come Usa e India, non vanno con decisione in questa direzione? Cina e Usa stanno facendo passi in avanti importanti, anche se ancora non vogliono impegnarsi come l'Europa: la Cina è oramai il primo investitore al mondo nelle fonti rinnovabili e Obama ha comunque fissato un target di riduzione delle emissioni da produzione elettrica al 2030 significativo anche se non sufficiente (-32% rispetto al 2005). «La transizione verso un mondo meno inquinato deve essere rapida, altrimenti si arriva troppo tardi. Alcune industrie lo hanno capito, altre non vogliono cambiare lo status quo», afferma Barbabella.

Chi comanda i giochi. Anche perché è difficile per una multinazionale del petrolio riconvertirsi ad altro in pochi anni. Sono queste tra le industrie più potenti che influenzano le politiche globali delle nazioni industrializzate, e che bloccano la transizione. Negli Stati Uniti per esempio il congresso (oggi a maggioranza repubblicana) ha votato per bloccare il finanziamento, di circa 3 miliardi di dollari che il presidente Obama voleva destinare alle nazioni in via di sviluppo, per aiutarle a superare l'uso dei combustibili fossili. Anche in Italia, secondo Barbabella, «quelli che hanno avuto più difficoltà a interpretare il cambiamento in atto sono proprio i politici». Che non conoscono o non capiscono il momento, nonostante decine di appelli di industrie e di rappresentanti della società civile stiano chiedendo proprio ai politici di accelerare la transizione.

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27 novembre 2015 Marco Ferrari
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