Da ormai vent'anni si celebra annualmente la Giornata Mondiale contro il lavoro minorile, indetta per la prima volta nel 2002 dall'International Labour Organization (ILO) per mettere in luce un problema che, due decenni dopo, non è ancora stato risolto. Il tema di quest'anno è stabilire una protezione sociale universale per porre fine al lavoro minorile in tutto il mondo: dal 2002 ad oggi sono stati fatti dei progressi per ridurre lo sfruttamento minorile (si stima che tra il 2000 e il 2012 il lavoro minorile sia sceso del 30%), ma gli sforzi si sono fermati tra il 2016 e il 2020, e la situazione è regredita con la covid. Al giorno d'oggi, l'ILO stima che 170 milioni di minori (l'11% di tutti i bambini del mondo) siano coinvolti in lavoro minorile, definito come "lavoro per il quale un bambino è troppo piccolo, o che è considerato inaccettabile ed è proibito ai bambini a causa della sua natura dannosa".


Numeri e luoghi dello sfruttamento. Nei Paesi meno sviluppati oltre un bambino su cinque tra i 5 e i 17 anni di età svolge dei lavori considerati dannosi per la sua salute e il suo sviluppo. La situazione peggiore è in Africa, dove un quarto dei bambini (pari a 72 milioni) lavora; seguono l'Asia e l'Asia Pacifica, dove lavorano 62 milioni di bambini. Nel complesso in Africa, Asia e Asia Pacifica vive l'88% dei bambini impiegati in lavoro minorile nel mondo. Il restante 12% si divide tra il continente americano (5%), l'Europa e l'Asia Centrale (4%) e gli Stati Arabi (3%).
Secondo l'UNICEF, un bambino è considerato impiegato in lavoro minorile se 1) ha tra i 5 e gli 11 anni e in una settimana lavora almeno un'ora retribuita e/o almeno 21 ore in casa senza essere pagato; 2) ha tra i 12 e i 14 anni e lavora almeno 14 ore settimanali retribuite e/o più di 21 ore in casa senza retribuzione; 3) ha tra i 15 e i 17 anni e lavora almeno 43 ore settimanali retribuite.
La nostra fetta di colpa. Molti dei bambini impiegati in lavoro minorile si occupano di produrre i vestiti che noi compriamo in grandi catene di fast fashion (sono i marchi che producono capi di abbigliamento in modo rapido ed economico, ndr) dalla raccolta del cotone, alla filatura, alla cucitura dei capi di abbigliamento, i bambini sono spesso preferiti agli adulti perché obbedienti (e sottopagati). Nella raccolta del cotone, ad esempio, le loro piccole mani sono preferibili a quelle degli adulti perché non danneggiano il raccolto: nei campi lavorano moltissime ore al giorno, respirano pesticidi e ricevono stipendi inferiori al minimo consentito per legge.


Insomma, se vogliamo porre fine all'ingiusto sfruttamento di milioni di bambini, dobbiamo fare anche noi la nostra parte e leggere l'etichetta dei capi che acquistiamo: Made in Bangladesh, Made in India... a volte il luogo di fabbricazione, unito a un prezzo troppo allettante, sta a indicare che da qualche parte i costi di produzione sono stati tagliati - e spesso sono quelli della manodopera.