Ayala: vi racconto Giovanni Falcone
Giuseppe Ayala in un'intervista racconta l'amico e collega Giovanni Falcone - Articolo tratto da Il coraggio di essere eroi (Focus Storia Biografie, 2012), qui in versione integrale in pdf.
23 maggio 1992: sull'autostrada che da Punta Raisi (l'aereoporto di Palermo) porta a Palermo, all'altezza di Capaci, sono stati piazzati 500 kg di tritolo. La bomba, azionata a distanza viene fatta esplodere al momento del passaggio dell'auto di Giovanni Falcone. Muoiono, il magistrato antimafia, la moglie Francesca Morvillo e i 3 agenti della scorta (Rocco di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani). A 20 anni di distanza da quel tragico evento l'amico e collega Giuseppe Ayala, ex pm al maxiprocesso, ci racconta il famoso magistrato.
Com’è nato il vostro rapporto? Alfredo Morvillo, il magistrato fratello di sua moglie Francesca, ci presentò nel 1981. Eravamo al Palazzo di giustizia di Palermo, dove bevemmo un caffè. Due chiacchiere e la simpatia fu immediata. Da lì iniziò un’intensa frequentazione: almeno un paio di volte la settimana ci vedevamo a cena con le mogli.
Come si lavorava a Palazzo di giustizia? Facevamo una vita durissima. Quando abbiamo iniziato non sapevamo dove saremmo arrivati. Abbiamo seguito Falcone e le nostre vite sono state blindate dal 1982: avevo 37 anni. Due passi in città erano vietati, così come il caffè al bar, ed era esclusa la possibilità di uscire con i miei figli. Per anni in Italia non ho mai camminato per strada con Falcone. Potevo farlo soltanto all’estero.
C’erano momenti di serenità? Ci facevamo macabri scherzi, come scriverci i necrologi. “Ciao Giuseppe, almeno per una volta sei arrivato prima di me” fu quello di Falcone per me. Aveva un’ironia demenziale, ridevamo tantissimo.
Quale fu l’importanza di Falcone magistrato? Abbiamo iniziato a lavorare insieme dopo l’omicidio Dalla Chiesa. Eravamo quattro pm a seguire l’innovatore, perché Falcone è stato soprattutto questo. Non chiese nuove norme, ma utilizzò quelle esistenti in modo diverso. Gli accertamenti bancari, per esempio: la droga non lascia tracce, ma i soldi sì, diceva. Poi ci furono i contatti diretti con i giudici stranieri. Grazie alle sue indagini Falcone godeva di una vasta credibilità internazionale. Prima di lui le rogatorie internazionali avvenivano in modo burocratico. Lui, invece, viaggiò, conobbe i colleghi stranieri, avviò un felice scambio di informazioni. E ciò dette grandi risultati.
Il fatto di essere siciliano gli fu d’aiuto? Certo. Falcone conosceva così bene i mafiosi che era capace di ragionare come loro. Ricordo un interrogatorio fatto di poche parole e molti sguardi che volevano dire tantissimo. Peccato che non si possano verbalizzare, mi disse.
Quali furono i suoi momenti più difficili? Quando gli fu preferito Antonino Meli alla guida dell’Ufficio istruzione di Palermo e l’esposto al Csm di Leoluca Orlando, che lo accusò di nascondere le prove nei cassetti.
La sua vita a Roma cambiò? All’epoca fummo vittime del gossip del Palazzo di giustizia di Palermo. Ci misero uno contro l’altro e per qualche mese ci salutammo a stento. Poi Giovanni mi fece avere il suo libro Cose di Cosa nostra prima che uscisse. Presi il telefono e gliene dissi di tutti i colori. Lui mi fece finire e mi invitò a cena. Ci riappacificammo e per la prima volta abbiamo fatto due passi senza scorta. “Giovanni, a Roma non ci ammazzano", gli dissi. “Penso che tu abbia ragione” mi rispose. La mafia voleva colpire in Sicilia.