Natura

Le coltivazioni e il cibo del futuro

Consumiamo specie vegetali domesticate migliaia di anni fa e da tempo abbiamo smesso di crearne di nuove. Con il clima che cambia, potrebbe essere un problema. Ma alcuni scienziati stanno correndo ai ripari.

Prima di sedersi a tavola probabilmente nessuno ringrazia gli agricoltori del neolitico per il cibo che stiamo per mangiare. Ma di fatto gran parte di ciò che finisce nel nostro piatto è il discendente di piante selvatiche domesticate più di 10.000 anni fa, migliaia di anni prima dell’invenzione dell’alfabeto.

I primi hacker. Quando è la natura al timone, le specie vegetali si evolvono selezionando quei tratti che ne favoriranno la sopravvivenza. Ma i primi contadini si resero subito conto che era possibile selezionare le piante sulla base di caratteristiche più gradite per chi le coltiva, per esempio la resa del raccolto o il sapore.

Un lavoro paziente che ha permesso, per esempio, di arrivare al moderno granturco e ai suoi circa 800 chicchi partendo dal teosinte, una graminacea che ne contiene solo una dozzina.

Malgrado esistano 50.000 specie vegetali commestibili, i nostri progenitori preistorici basarono la propria dieta solo su un migliaio, e nel neolitico ne vennero scelte giusto alcune. Da allora le cose non sono cambiate più di tanto: la domesticazione di nuove specie vegetali si è praticamente fermata 1000 anni prima di Cristo. Di fatto oggi ricorriamo solo a 150 piante per alimentarci. Non solo: a livello mondiale i 2/3 delle calorie che assumiamo provengono da solo tre colture: mais, frumento e riso.

rischio imminente. In un mondo dove il clima cambia e diventa sempre più instabile, puntare su poche coltivazioni per il sostentamento di miliardi di persone sta diventando decisamente un rischio. Certo i cereali e legumi che abbiamo già a disposizione offrono molti vantaggi, sono prevedibili e facili da mietere. Ma con il tempo stanno anche diventando sempre più vulnerabili a parassiti, malattie e capricci metereologici.

Se i trend resteranno invariati, il raccolto globale di soia potrebbe diminuire di quasi il 30 per cento entro il 2050, quello del frumento del 7,5 per cento. In seguito alla grande ondata di caldo in Europa dell’estate del 2003 in molti paesi i raccolti sono stati fino al 30 per cento inferiori alla media.

Per questo motivo, le specie vegetali che potrebbero essere selezionate per diventare il cibo di domani dovrebbero essere più resilienti ai cambiamenti climatici.

Come realizzarle? Le strade sono due. La prima è quella antica: ibridare le piante come facevano i nostri progenitori neolitici; la seconda è più moderna: attraverso il sequenziamento del DNA, trovare delle scorciatoie che portino a realizzare in pochi decenni ciò che ai nostri antenati è costato migliaia di anni di duro lavoro.

Con un sapore antico. Prendete per esempio l'apios americana.

È una leguminosa endemica dell’America settentrionale che veniva consumata abbondantemente dai nativi. I primi coloni la snobbarono, presi com’erano a far attecchire i semi delle cultivar portate dall’Europa.

Ora diversi ricercatori l'hanno recuperata e stanno studiando come coltivarla nuovamente. È molto resistente: ha bisogno di poca luce e cresce anche in suoli poveri, caratteristiche che al giorno d’oggi la rendono decisamente ambita.

Steve Cannon, un genetista dell’Iowa State University sta lavorando alla sua domesticazione, con l’obiettivo di trasformarla in un alimento base della nostra dieta. L'apios americana, infatti, è estremamente versatile: offre legumi commestibili e grossi tuberi che contengono tre volte le proteine di una patata. Chi ha provati questi ultimi li ha trovati deliziosi, definendoli patate con un aroma di nocciolina.

L'apios americana produce tuberi ricchissimi di proteine e con il gusto di patate con un aroma di nocciolina. © Steffen Hauser / botanikfoto / Alamy / IPA

In buona compagnia. Il Land Institute in Kansas, invece, sta lavorando da tempo alla selezione di nuovi cereali partendo proprio dall’inizio, dall’erba di grano. Nel 2010 il team guidato da Lee DeHaan ha creato il kernza, un nuovo tipo di grano selvatico con forti radici che arrivano fino a tre metri, in grado quindi di assorbire acqua e nutrienti in modo più efficace.

Grazie alle sue radici lunghe fino a 3 metri, il Kernza ha bisogno della metà dell'acqua rispetto al grano comune. © Jim Richardson

Il kernza è una pianta perenne e dopo il raccolto ricresce spontaneamente, senza bisogno di preparare il terreno e seminarla nuovamente. Nel frattempo il marchio di abbigliamento Patagonia, da sempre attento all’ambiente, ha lanciato una birra realizzata con il 15 per cento di kernza.

Per ingannare l’attesa. Ci vorrà del tempo prima di poter comprare sacchi di apios americana o farina di kernza. Ma possiamo provare a ingannare l’attesa iniziando a mangiare in modo più vario partendo da quei cereali e legumi che esistono già, e che normalmente snobbiamo.

Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale in Italia vengono attualmente coltivate non più del 10 per cento delle varietà presenti sul territorio, molte delle quali, attestate fin dai tempi antichi, sono destinate a estinguersi. Oltre a creare nuove colture, è forse ancora più importante salvare quelle che già abbiamo a disposizione.

6 febbraio 2017 Alessandro Pilo
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