Quando una pianta viene colpita da una malattia, le cellule direttamente coinvolte nell'infezione lanciano un ultimo grido di allarme alle colleghe, prima di spegnersi in un ultimo lampo di gloria. Sembra poesia, o almeno un'esagerazione, ma è quanto ha scoperto un team della Duke University in uno studio su alcune piante di Arabidopsis, comunemente nota come arabetta: un meccanismo di autodifesa che potrebbe non essere esclusivo di questa brassicacea, ma applicarsi anche, per esempio, al riso o ad altri raccolti dal grande valore economico. La ricerca è stata pubblicata su Cell Host & Microbe.
Può sembrare una banalità, ma anche le piante si ammalano: ogni anno, perdiamo circa il 15% di tutto il cibo che coltiviamo, dal riso al mais al grano, a causa di qualche malattia, con un costo quantificabile in circa 220 miliardi di dollari (!). Le piante, poi, non si possono muovere, e quindi non possono, per esempio, rimuovere attivamente un parassita; e sono prive di difese specializzate che scorrono nel sangue, come i nostri globuli bianchi.
Alternative. Per combattere le malattie, quindi, devono inventarsi metodi alternativi. La ricerca del team di Duke ha permesso di identificare, per ora solo nell'arabetta, una di queste strategie. Funziona così: quando le sue cellule si ammalano, si suicidano per il bene comune.
Più precisamente: nell'esperimento, le arabette sono state infettate con un patogeno molto diffuso, un batterio chiamato Pseudomonas syringae. Le cellule delle parti colpite della pianta hanno reagito facendo due cose in rapida successione. Prima hanno accelerato il loro metabolismo alla massima potenza, aumentando la produzione di proteine utili per la crescita. Dopodiché si sono autodistrutte. L'extraproduzione, secondo gli autori, è un modo per segnalare al resto della pianta che c'è un problema, ma anche per lasciare "in eredità" un po' di molecole utili prima di spegnere il proprio motore cellulare nel tentativo di frenare la diffusione della malattia.
Quante lo fanno? Per ora, come detto, il meccanismo è stato identificato solo nell'arabetta, ma c'è la speranza che anche altre piante, in particolare certi raccolti vulnerabili ai patogeni, possano funzionare allo stesso modo, e che questa sorta di "ultimo lampo di gloria" possa venire sfruttato per ridurre quei 220 miliardi di perdite di cui parlavamo prima.