Sono i primi ad arrivare sul luogo della catastrofe: unità cinofile da disastro, cani e uomini, perfettamente allenati a calarsi sulle macerie di un terremoto da aerei ed elicotteri (in modo da raggiungere tutti i punti colpiti, anche in caso di inagibilità delle strade).
Quello del “protettore civile” è un mestiere poco noto: tutti hanno visto scene di crolli, fiumi di lava che coprono case, lingue di fiamme sulle pinete, ma pochi conoscono i retroscena, le manovre necessarie ai soccorsi. Cosa succede a partire dal momento della catastrofe? Come esempio, abbiamo scelto un terremoto, un tipo di disastro frequente in Italia.
L’ora X: il terremoto. L’arrivo dei soccorsi si può dividere in 4 fasi.
Tempo sul cronometro: circa 1 ora.
I reparti antidisastro. Alla Protezione Civile italiana bastano dunque 60 minuti (talvolta anche meno) per far partire una macchina dei soccorsi potenzialmente colossale. «Per il gran numero di rischi naturali che pendono sull’Italia, la Protezione Civile italiana non è un corpo a sé, come accade in altri Paesi, come Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia o Germania, ma è un sistema “a fisarmonica”, diviso per emergenze locali, interprovinciali, nazionali.
In parole povere, più è grave la calamità naturale, più imponente è la gestione dei soccorsi, e maggiori sono i mezzi ordinari e straordinari su cui possono contare i reparti speciali» aggiunge Galanti.
«Oggi il coordinamento dei soccorsi nazionale è gestito dal Comitato Operativo nazionale della Protezione Civile che decide la strategia da adottare» precisa Galanti. «Riceve in poche ore informazioni e invia indirizzi operativi tramite la Sala Italia. A questo coordinamento si sono aggiunte, in questi anni, le colonne mobile delle Regioni che sono in qualche modo la risposta più ravvicinata e coordinata al territorio colpito. Si tratta di accorciare i tempi tra la comunicazione degli aiuti (quasi in tempo reale per l'uso diffuso della Rete) e l'arrivo dei soccorsi che debbono essere sempre più vicini ai territori».
72 ore a disposizione. Una cosa è certa: bisogna fare in fretta, perché il cronometro dei soccorsi ha un tempo limite preciso: 72 ore. È il termine convenzionale per salvare il maggior numero di persone vive dopo un terremoto. I traumi da terremoto, infatti, esigono un intervento veloce: per esempio la “sindrome di dissanguamento” (provocata dal crollo di vetrate, plafoniere, pannelli, all’interno di abitazioni e uffici di cemento armato, che non crollano), oppure la “sindrome da schiacciamento” (provocata da travi e macerie caduti addosso) comune anche in casi di frana, esplosione, valanga, intrappolamento tra rottami. Le conseguenze di queste due sindromi dipendono dal tempo trascorso seppelliti vivi: lievi, entro le 4 ore, medi, tra le 4 e le 9 ore, gravi, fino al decesso per shock e insufficienza renale, dopo 9 ore. E se non si fa presto i risultati sono drammatici: più della metà delle vittime del terremoto dell’Irpinia erano ancora vive sei ore dopo la scossa.
I fattori salva-vita. Arrivare in tempo è questione di fortuna, bravura e lungimiranza: determinante è la buona condizione delle strade, ed eventualmente di porti e aeroporti, in prossimità del disastro. Più sono integri, prima arrivano i soccorsi.
Salvare la pelle può essere anche questione di fortuna: il bilancio delle vittime del terremoto in Friuli del 1976, è stato contenuto (980 morti, tanti, ma potevano essere molti di più) perché sul posto, a un passo dal confine, si trovava già un quarto dell’esercito italiano: dopo una manciata di minuti i soccorritori erano 35 mila.
Per il terremoto dell’Irpinia, nel 1980, si dovette spostare a Sud la Forza Armata dislocata nel Nord-Est (c’era ancora la Guerra Fredda e il confine con la Jugoslavia era molto presidiato). Mancava una viabilità adeguata e ci vollero 4 giorni per organizzare i soccorsi.
I terremoti successivi al 1980 sono stati gestiti con il nuovo sistema del Dipartimento della Protezione Civile, istituita proprio nel 1982 per far fronte alle emergenze. E infatti i terremoti dell'Umbria e Marche del 1997, quello di S. Giuliano nel 2002; quello de L'Aquila nel 2009 e quello dell’Emilia Romagna nel 2012, non hanno avuto criticità per il coordinamento dei soccorsi.
Il tutto grazie al consolidamento - a livello centrale - del Dipartimento della Protezione Civile e – a livello locale - alla costituzione delle organizzazioni di Protezione Civile regionali e locali.
La scena del disastro. Indispensabile, poi, per accorciare i tempi dei soccorsi, è avere già in mano un piano di emergenza sufficientemente dettagliato da prevedere il quadro della catastrofe: i ponti e le case collassati, il numero di vittime, la strategia dei soccorsi, la divisione dei compiti tra soccorritori.
«In questi anni si è intensificata l'attività di prevenzione per la riduzione dei rischi anche attraverso l'elaborazione di piani comunali di protezione civile» spiega ancora Galanti. Sono fondamentali. Per ogni comune stabiliscono le attività da svolgere nelle prime 72 ore dopo un terremoto (o un altro evento d’emergenza): per esempio come far fronte ai bisogni essenziali delle persone, dove raccogliere in sicurezza le persone rimaste senza un tetto, come fornire una corretta informazione: «Una volta ce n’era poca, oggi con Internet e Social Network c'è il rischio che non sia sempre corretta e proveniente dalle fonti più accreditate: le persone hanno bisogno di sapere tempestivamente da fonti autorevoli cosa è successo, cosa succederà e che cosa fare» spiega Galanti.
GAra ad ostacoli. I piani di emergenza permettono di immaginare la scena del disastro dalla quale tenere a distanza i curiosi, istituendo speciali corridoi per trasportare i feriti direttamente all’ospedale da campo, o alle strutture sanitarie più vicine. Vanno poi recintate o presidiate le aree da destinare ai soccorsi esterni (area per elicotteri e parcheggio autoambulanze), le aree di raccolta della popolazione, dove prestare i primi soccorsi e, naturalmente, le cosiddette aree di ricovero, dove installare tende o i primi prefabbricati, e gli edifici da destinare ad usi particolari, dai dormitori alle celle frigorifere per la conservazione delle salme.
Un nodo cruciale, poi, è quello dello stress. Perché l’emergenza, avvertono gli psicologi, rende vulnerabili anche i rapporti già collaudati: capita, quindi, che la macchina dei soccorsi si inceppi per motivi banali, come una lite tra soccorritori. E non solo: spesso le operazioni di soccorso vengono ostacolate da persone che per il solo fatto di vivere nelle aree immediatamente adiacenti a un disastro hanno comportamenti dannosi, come scappare in auto congestionando il traffico, o bloccare le colonne dei soccorsi per segnalare piccoli incidenti, quando le vere vittime non hanno magari neanche la forza di chiedere aiuto.