Il lago Whillans è una distesa di acqua sovrastato da circa 800 metri di ghiaccio nell’Antardide occidentale. Arrivare alle sue acque (dolci e liquide) è stato una grande impresa (che fa parte del progetto progetto WISSARD) finanziata dalla National Science Foundation statunitense, dalla Nasa, dalla Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration) e, in Italia, dal Programma Nazionale Ricerche in Antartide.
Le acque raccolte dopo la lunga e accuratissima perforazione hanno svelato come il lago stesso non è, come si pensava, un ambiente sterile, ma pieno di vita. Alcuni dei campioni sono stati analizzati chimicamente a Venezia, nella clean room del Dipartimento di Scienze Ambientali di Ca’ Foscari, un laboratorio a contaminazione controllata nel quale gli scienziati possono identificare ultratracce, cioè la presenza di molecole anche organiche a bassissima concentrazione.
I mangiaroccia. Nei campioni trovati non ci sono animali o piante di grosse dimensioni, ovviamente, ma batteri delle più diverse specie.
«L’ambiente è estremo», dice Carlo Barbante, chimico e paleoclimatologo dell’Università Ca’ Foscari Venezia, direttore dell’Istituto per le dinamiche dei processi ambientali del Cnr, «perché le acque sono isolate da forse 10.000 anni, la temperatura è di circa 1 grado sotto zero, la luce è del tutto assente e ci sono almeno 80 atmosfere di pressione». In un ambiente così non si può sfruttare le fotosintesi, e i microrganismi riescono a ricavare energia da altre reazioni biochimiche.
L’unico modo per farlo è dissolvere le rocce del fondo e sfruttare l’energia racchiusa nei legami tra le loro molecole. Oppure ricavare nutrienti dai sedimenti sotto il ghiaccio, o da altri batteri morti che si depositano sul fondo.
In un breve filmato della National science foundation, l'impresa del progetto WISSARD spiegata (in inglese).
Ambienti alieni. Un’intero ecosistema che vive quasi solo sfruttando il dissolvimento delle rocce del fondale; un insieme di organismi molto simili a quelli che vivono nelle profondità marine, anch’essi senza la luce ma sfruttando i minerali presenti nei sedimenti freddi e bui sul fondo dell’oceano. Come suggerisce Carlo Barbante, un ecosistema simile potrebbe anche esistere nelle acque profonde che (forse) resistono ancora in qualche angolino di Marte o di Europa. «L’importante sarebbe riuscire a esportare la tecnologia fino agli altri pianeti del sistema solare», conclude. E chissà cosa troveremo.