Un recente studio condotto dal gruppo di Carlos Duarte, direttore del KAUST Red Sea Research Center di Jeddah (Arabia Saudita), firmato da Alejandra Ortega, ha messo in luce il ruolo inaspettato, e importante, di macroalghe come il sargasso (Sargassum) e il kelp (appartenenti alla classe Phaeophyceae) nei processi di immagazzinamento del carbonio (dalla CO2) sotto forma di biomassa: il cosiddetto blue carbon. Lo studio è pubblicato su Nature Geoscience.
Come spiega Ortega, il possibile contributo delle macroalghe al sequestro del carbonio sotto forma di biomassa è stato a lungo ignorato, principalmente perché si tratta di alghe, ossia organismi di struttura vegetale privi di radici, dunque flottanti e difficili da seguire e monitorare sulla lunga distanza. Osservazioni e calcoli recenti stanno tuttavia rivelando uno scenario diverso: le macroalghe possono inglobare notevoli quantità di carbonio che viene rimineralizzato, depositato vicino alle coste o sequestrato nelle profondità oceaniche.
Nel 2018 il totale mondiale delle emissioni di CO2 (anidride carbonica) di origine antropica (ossia dovute alle attività umane) in atmosfera ha superato i 40 miliardi di tonnellate
Per quantificare questo fenomeno, i ricercatori del KAUST hanno esaminato il DNA di materiali particellati provenienti da oceani e mari di tutto il mondo, Mar Rosso incluso, raccolti lungo colonne d'acqua dalla superficie sino a 4.000 metri di profondità. Il DNA delle macroalghe è stato trovato sia nei campioni profondi, sia in campioni raccolti a grande distanza dalla costa. È una scoperta importante, perché si ritiene che il carbonio che raggiunge profondità superiori ai 1.500 metri può essere considerato "sequestrato" in modo permanente.
Le macroalghe potrebbero dunque fungere da serbatoi di carbonio (carbon sink): spazzini atmosferici che, assorbendo il carbonio dalla CO2 e inglobandolo a grandi profondità, ne impedirebbero il rilascio in atmosfera per periodi di tempo assai lunghi.