Alla luce del terzo e ultimo contributo al Quinto Rapporto dell'Ipcc sui cambiamenti climatici, quello del Working Group III (WG3) sulla politica del cambiamento globale (la Sintesi per i decisori politici), ecco tre domande a cui è urgente rispondere.
Una scusa per mettere nuove tasse?
No. Non ci sono argomenti scientifici che possano giustificare nuove tasse. E l'accusa di alcune lobby, soprattutto americane, di ostacolare le dinamiche di mercato con l'imposizione di tasse per fermare il global warming va ribaltata.
Quanto affermano l'Ipcc e gli scienziati del clima, secondo Riccardo Valentini, direttore della Divisione impatti del clima e membro del Centro Euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, non sono giustificazioni per nuove imposizioni. Gli studi dei climatologi suggeriscono la possibilità di "tassare" il carbone emesso, ma è solo una delle risposte per contenere le emissioni di gas serra.
Ci sono infatti molte altre misure possibili per la riduzione e il controllo delle emissioni, che si possono ottenere anche senza nessuna nuova tassa. Anzi, come dice Valentini, in una società ideale ed etica, che si rende conto del problema, ci possono essere politiche globali di incentivazione di soluzioni "green" che scoraggino l'uso dei combustibili fossili. Cittadini e industrie potrebbero cioè rendersi conto che l'uso di petrolio e carbone sta creando più di un problema al pianeta, e che è necessario cambiare rotta. Questa svolta potrebbe non solo ridurre le emissioni, ma anche, e forse soprattutto, dare slancio a una rinnovata crescita economica.
Gli scienziati del clima sono dei catastrofisti?
No. Anzi, secondo alcuni, come Stefan Rahmstorf, del Potsdam Institute for Climate Impact Research in Germania, il rapporto dell'Ipcc è fin troppo cauto.
Il rapporto si divide in analisi dello status quo e previsioni del futuro. Le analisi sono basate su conoscenze scientifiche acquisite (il fatto, per esempio, che la CO2 assorbe i raggi infrarossi provenienti dalla superficie terrestre) e su dati raccolti in ogni angolo del mondo. Sono numeri che riguardano la temperatura dell'atmosfera e del mare, l'acidità delle acque oceaniche, gli spostamenti di ecosistemi e popolazioni animali, l'intensità degli uragani e milioni di altri dati. Lo status quo descritto dal rapporto è quindi fondato su dati scientifici più o meno precisi, ma che nessuno può contestare.
Le previsioni sul futuro sono invece scenari: non singoli percorsi inequivocabili ma complesse elaborazioni dei cosiddetti modelli climatici. Questi ultimi, secondo Silvio Gualdi, direttore della Divisione servizi climatici del Centro Euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, sono modelli al computer basati sugli stessi principi delle previsioni meteorologiche a breve termine, che sono sempre più precise: il risultato è quanto di più avanzato ci sia nel campo della climatologia.
Chi accusa l'Ipcc di catastrofismo non propone modelli o scenari alternativi, da sostituire a quelli usati dalla comunità internazionale dei climatologi. Si sa da tempo che i modelli, dicono i fisici dell'atmosfera, hanno incertezze e non coprono tutte le dinamiche possibili a ogni scala, ma sono anche l'unico metodo utilizzabile per disegnare scenari plausibili per le future politiche.
No, il rapporto dell'Ipcc è chiaro: l'intero pianeta sta subendo le conseguenze del global warming (riscaldamento globale), che prima o poi si farà sentire ovunque.
I Paesi poveri o in via di sviluppo sono invece i primi a subire gli effetti dei cambiamenti climatici, oltre che i più esposti. Prima di tutto perché le zone che già risentono e risentiranno sempre più delle modifiche ambientali sono proprio quelle tropicali, insieme alle zone artiche e antartiche, che tipicamente soffrono di scarsità di mezzi economici e infrastrutture, e non hanno politiche adeguate per affrontare i grandi cambiamenti che stanno avvenendo. Alcuni di questi Paesi sono sulla rotta dei grandi tifoni o uragani tropicali, e non hanno le strutture per proteggersi da venti a oltre 230 km/h. Infine, alcuni territori particolarmente esposti costituiscono le cosiddette small island nations, cioè piccole nazioni insulari, che potrebbero, anche se in un futuro non prossimo, soffrire dell'innalzamento del livello degli oceani e della degradazione delle barriere coralline in seguito all'acidificazione delle acque.
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