3671 comuni a rischio, 4016 eventi negli ultimi 100 anni, milioni di chilometri quadrati distrutti, 12.614 fra morti, dispersi e feriti. Non sono le cifre di una guerra, ma quelle delle alluvioni dal 1950 al 2000. Da qualche anno a questa parte, molti dei territori più popolosi del nostro Paese sono colpite da vere e proprie catastrofi. Quanto queste distruzioni siano naturali, è ormai molto dubbio. Se fino a vent'anni fa le colpe erano sempre date alla natura (e ancor'oggi alcuni media non si discostano da questo standard) si va facendo strada una consapevolezza diversa, cioè che un fiume è un corpo vivo, che quindi in determinate stagioni ha necessità di crescere, e in altre dimagrisce.
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E che le opere umane, anche quelle più attente, abbiano un certo impatto sull'ambiente è riconosciuto da tutti. Se d'ora in poi, quindi, si può pensare - o sperare - che tutti i manufatti siano costruiti con una maggiore attenzione, come si è giunti a questa situazione? Perché le alluvioni hanno devastato l'Italia (e si sono addirittura infittite) dal dopoguerra in poi?
Piove troppo? Le responsabilità sono suddivise imparzialmente tra le precipitazioni e la gestione del territorio. Se per le prime non c'è ancora niente da fare, è importante riconoscere invece come il territorio italiano, geologicamente giovane e montuoso, sia estremamente fragile dal punto di vista ambientale. Anche in condizioni "naturali" i boschi possono trattenere solo una parte delle precipitazioni.
Convivere con le alluvioni
Ma è anche un territorio gestito male; costruzioni in aree golenali, argini inutili, fiumi stretti in pochi metri e con il letto ricoperto di cemento, boschi abbandonati o peggio ancora incendiati o scomparsi. Negli ultimi anni, dice Giuliano Cannata, Docente di pianificazione dei bacini idrografici all'Università di Siena, si è visto che a una pioggia simile a quella che è avvenuta decenni prima il territorio risponde con una piena maggiore e più distruttiva. Si può rimediare, o dovremmo abituarci a convivere con le alluvioni?
«È anche un problema di cultura, dice Andrea Agapito Ludovici, che è
Responsabile dei fiumi presso il Wwf Italia. Non esiste nessuna cultura
forestale e naturalistica che possa contrastare quella di ingegneria
idraulica, fortemente consolidata, che continua a determinare interventi
e opere che condizionano il regime delle acque. La gestione del
territorio quindi non tiene in conto le esigenze della natura».
Un territorio che, oltre a essere cambiato per l'impatto
delle attività umane, sta variando anche in funzione degli eventi
climatici. Un altro problema è infatti definire proprio l'impatto che un
evento climatico ha sul territorio; da alcuni decenni questo impatto è
molto maggiore di quello che si avrebbe se il territorio non fosse
urbanizzato. Appunto perché il territorio è rigido e fragile come un
cristallo e quindi, come dice ancora Agapito, non è in grado di
rispondere a qualsiasi tipo di crisi, sia esso una piena o un episodio
di siccità.
Ci sono colpe?
La causa fondamentale è innanzitutto
l'urbanizzazione. Siamo tanti, molti di più di quanto non fossimo anche
solo cinquant'anni fa. Se nel bacino padano siamo circa 16 milioni di
abitanti, rispetto al milione o due di qualche centinaio di anni fa, è
ovvio che i rischi per le persone e le cose aumentano. L'altro problema è
l'impermeabilizzazione del territorio, cioè la ricopertura delle
pianure con strade, città e attività produttive. Ovviamente, non
incontrando un terreno in cui penetrare e radici che la trattengano,
l'acqua scorre via rapidamente, e sposta solo il problema dell'alluvione
più a valle. «Ancora una volta, conclude Andrea Agapito, è una
questione di cultura. Nessuno vuole che l'acqua rimanga nel proprio
territorio, e tutti, dagli amministratori all'ultimo barcaiolo”esperto”
di fiume, pretendono che la piena passi il più in fretta possibile. Il
che è anche giustificato, ma non fa altro che spostare più a valle il
problema, con l'acqua che precipita in pianura sempre più velocemente.»
Non è certo possibile tornare a una situazione anche
soltanto vicino a quella naturale. Non si possono svellere le strade o
ricostruire tutti i boschi in montagna, anche perché l'abbandono è un
fenomeno irreversibile. Eppure la risposta, dice Giuliano Cannata, è
molto semplice: «La difesa del suolo si fa soprattutto con l'uso del
suolo: cioè legiferando, incentivando, intervenendo, in una parola
pianificando. Dall'uso del suolo dipende la risposta del territorio a
una pioggia.» Prosegue Cannata: «L'uso del territorio è sottratto a
qualsiasi logica di mercato perché totalmente sovvenzionato dall'Europa o
dall'Italia. Appunto perché tutto l'utilizzo del suolo in Italia è
sovvenzionato, il territorio agricolo e forestale potrebbe essere
indirizzato verso un uso idrologicamente corretto, che a una stessa
pioggia fa corrispondere una piena minore.»
Torrenti di cemento
L'esempio più classico, prosegue
Cannata, viene dalla Val d'Aosta, che negli anni '80 “geometrizzò”
moltissimi torrenti montani, cementificandoli e raddrizzandoli. Con la
conseguenza di scaricare a valle, in occasione della piena del 2000,
milioni di metri cubi d'acqua nel Canavese. L'intervento più semplice?
Tornare nei torrenti e distruggere tutte le opere inutili fatti in
quell'occasione. Come hanno fatto in Germania dopo l'alluvione del Reno
del 1998: sono stati acquisiti circa 1.000 chilometri quadrati di
territorio e allargati gli argini. Permettendo il fiume di allagare una
fascia più ampia e “sfogarsi” senza distruggere. Il contrario, denuncia
Cannata, di quello che è avvenuto in Italia, in cui centinaia di
chilometri quadrati di argine del Po sono stati letteralmente regalati
ai coltivatori.
Ma è anche una cultura di bacino, dice Agapito, che
manca. Sarebbe necessario, anche andando contro ai nostri “istinti” di
allontanare la piena, aumentare la capacità di ritenzione dell'acqua che
consentano di ridurre la sua velocità. Prima di tutto con la
manutenzione della montagna e del territorio, in modo da riportare i
boschi e altri terreni alla loro funzione: trattenere l'acqua delle
piene. Poi rispettare il fiume, il suo corso e il suo divagare,
ovviamente nei limiti imposti dal rispetto delle attività umane. Se un
fiume distrugge un arginello sulla golena (vedi Multimedia), per
esempio, più e più volte, perché rifarlo esattamente così volta dopo
volta? Le costruzioni sul greto del fiume, per esempio, sono destinate
prima o poi a essere distrutte. È un errore, infine, pensare a soluzioni
semplicistiche, come la necessità (spesso affermata dai cosiddetti
esperti) di scavare sul greto del fiume; paradossalmente quando c'è la
siccità e quando si minacciano le alluvioni, la soluzione è sempre
scavare.
Gestire la montagna?
La cosiddetta manutenzione della
montagna non è più possibile, perché la montagna è abbandonata da
decenni, e la gente là non ritorna. Ma con nuove tecniche (ingegneria
naturalistica per esempio) è possibile accelerare l'assestamento delle
pendici per arrivare, magari in un tempo più breve delle dinamiche
naturali, a boschi nuovi che assorbano l'eccesso di acqua.
Anche fare la manutenzione del solo fiume è limitativo; sono
necessari interventi di manutenzione del territorio, che possono essere
fatti per esempio dai parchi o dalle comunità montane.
Non è possibile pensare, affermano in definitiva gli
esperti, di avere soluzioni facili per tutto ciò che accade. Altrimenti
le alluvioni rimarranno e, anzi, aumenteranno.