Prima del 2008, in Oklahoma (Usa), di eventi sismici rilevabili anche dalla popolazione se ne verificavano mediamente uno all’anno. Dal 2014 il numero di sismi è di uno al giorno, una crescita... astronomica!
Il numero di terremoti, in effetti, è enormemente cresciuto in tutta l'area degli Stati Uniti centro-orientali. Cosa sta succedendo? Il fenomeno non ha nulla a che vedere con le apocalittiche sventure dei film catastrofici: più semplicemente. è direttamente collegato al pompaggio nel terreno delle acque reflue utilizzate per l’estrazione di petrolio e gas. A questa conclusione, neppure troppo originale, si è giunti grazie a un approfondito studio intrapreso dopo che, alcuni anni or sono, si era ipotizzata una possibile relazione tra tecniche estrattive e instabilità sismica.
Relazione pericolosa. È dal 1960 che varie ricerche geologiche avevano messo in luce che l’iniezione di fluidi in prossimità di faglie (ossia di fratture della crosta) può indurre terremoti, in quanto aumentano la pressione idraulica all’interno della frattura stessa, facilitandone il movimento. Quelle ricerche descrivevano tuttavia un meccanismo molto complesso da verificare, forse perché la strada intrapresa dagli studi non era la più corretta.
La maggior parte delle ricerche, infatti, si poneva l’obiettivo di trovare la relazione tra sisma e pozzo di acqua perdente, cercandola nel pozzo più vicino all'epicentro di un sisma. «Questo approccio, però, rende difficile trovare una risposta per ogni situazione, perché non permette di generalizzare: non necessariamente il pozzo più vicino ad una faglia che si muove è causa di un terremoto», spiega Matthew Weingarten, della University of Colorado a Boulder, responsabile della ricerca pubblicata su Science. Bisogna avere un quadro assai più generale della situazione.
L'indagine. Weingarten ha redatto un lavoro che dà un quadro di tutti i pozzi della zona centrale e orientale degli Stati Uniti, sia quelli utilizzati come pozzi reflui sia quelli dove si inietta acqua per fluidificare il greggio e farlo risalire più facilmente in superficie.
Il risultato è che i primi hanno una probabilità di creare terremoti superiore di una volta e mezzo rispetto ai pozzi petroliferi, anche se più lontani rispetto agli epicentri dei terremoti. E il legame è molto più elevato se si supera l’immissione, nei pozzi reflui, di circa 300.000 barili (1 barile = 159 litri) al mese. Altri fattori, quali ad esempio la pressione con la quale viene iniettato il liquido o il volume globale del materiale o se l’acqua raggiunge o meno il basamento roccioso, risultano meno importanti.
La velocità di iniezione. Il principale problema sta nella velocità con la quale l’acqua viene iniettata.
Se il processo è lento provoca meno sismi che non quando la si introduce in grandi rapidamente. Grandi quantità d’acqua in poco tempo, infatti, accelerano l’innesco del movimento delle faglie, soprattutto quando sono già prossime a uno scuotimento. «C’è un equilibrio tra acqua che si inietta e assorbimento dalle rocce che non si deve rompere. Se si supera il punto di equilibrio il terremoto è assicurato», commenta Katie Keranen, sismologa presso la Cornell University.
Questo spiega perché i pozzi petroliferi per l’estrazione hanno poca o nulla relazione con i terremoti. Essi infatti estraggono greggio mentre iniettano acqua e questo mantiene inalterato l’equilibrio.
Piano piano. Secondo i ricercatori sarebbe sufficiente ridurre la quantità d’acqua che si inietta nel suolo in un determinato periodo di tempo. Al momento sembra che le compagnie petrolifere abbiano recepito le indicazioni: da pochi mesi è stato adottato un protocollo che le obbliga a regolare l'attività estrattiva (fino a sospenderla per un certo periodo di tempo) in funzione dell'acqua immessa. I risultati, ossia un ritorno alla sismicità tipica delle zone, dovrebbero avvertirsi nell'arco di pochi mesi.
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