Una cosa su cui si riflette poco è che il suolo coltivato, quello che ci permette di avere quotidianamente pasta, riso, pane, verdure, è profondo solo pochi decimetri. Non più di un metro.
E affinché si formino 2,5 centimetri di suolo nuovo, la natura impiega non meno di 500 anni. Quello che definiamo strato attivo è dunque un tesoro prezioso e raro, ben più del petrolio.
Ma quasi un terzo delle terre coltivabili del nostro pianeta è scomparso negli ultimi 40 anni, a causa di pratiche agricole intensive: ci vorranno secoli perché tornino produttive. E la situazione non può che peggiorare se non si prendono provvedimenti ora, affermano gli esperti che hanno presentato il loro rapporto alla COP21, la conferenza sul clima di Parigi.
Il fantasma della dust bowl. L’allarme, perché si tratta di un vero e proprio allarme, è arrivato da Duncan Cameron, biologo dell’università di Sheffield (UK): «Oggi il tasso di erosione dei campi arati è da dieci a cento volte superiore al tasso di formazione del suolo». Il ricercatore sottolinea che il sistema di agricoltura intensiva è insostenibile, in particolare per l'uso massiccio dei fertilizzanti, che a lungo andare degradano il suolo anziché arricchirlo. Senza contare che la produzione di fertilizzanti assorbe almeno il 2 per cento delle fonti energetiche disponibili annualmente.
«Per capire verso dove stiamo andando bisogna pensare alla dust bowl che si verificò nel 1930 nel Nord America: quella sarà una situazione normale sul nostro pianeta se proseguaiamo su questa strada». ha sottolineato Cameron. La dust bowl è una serie di tempeste di sabbia che interessarono la parte centrale degli Stati Uniti e una vasta area del Canada, causate dalla progressiva desertificazione del suolo fertile direttamente correlate a tecniche di agricoltura intensiva, con uso massiccio di fertilizzanti chimici e senza rotazione delle colture. Fu un vero e proprio disastro ecologico.
Rotazione e riposo. Secondo il ricercatore la soluzione c'è e consiste nel tornare all’uso di metodi agricoli pre-industriali, che permisero di preservare i terreni agricoli per generazioni. In particolare servirebbe tornare all’uso dei letami, che permettono di ripristinare la materia prima di cui è composto lo strato attivo, oltre che la struttura del suolo e la sua capacità di trattenere l’acqua e i nutrienti. «C’è un gran bisogno di mettere a riposo molti suoli - afferma Cameron - per dare loro il tempo di ricostituire caratteristiche e nutrienti.
E c'è un altro fattore importante da considerare: i metodi di produzione hanno imposto una netta distinzione tra suolo agricolo e quello usati per l’allevamento.
Bisogna invece tornare alla rotazione, sia delle colture sia delle destinazioni.»
Il ruolo delle biotecnologie. Con tutto ciò Cameron non auspica il ritorno all'agricoltura dell'800 e la rinuncia alle tecnologie, anzi. In particolare, ritiene che le biotecnologie dovrebbero essere utilizzate per ricreare e supportare la simbiosi tra suolo e microbi, il cui "lavoro" riduce la necessità di fertilizzanti.
Come siamo arrivati a questo punto? Di chi è la colpa? Certo non degli agricoltori, ultimo anello di una lunga catena di scelte a valle della produzione, obbligati dal "mercato" ad adeguarsi a metodi di lavoro che distruggono la terra. Quello che è in primo luogo necessario adesso, è una nuova politica per l'agricoltura che li aiuti a prendere un’altra strada.