Ecologia

COP21, alla fine non tutto è concluso

Dicembre 2015: ora bisogna aspettare che i Paesi firmino l'accordo, poi il 2020 perché comincino a metterlo in pratica, poi il 2023 per la prima verifica... Nonostante le evidenze, ci muoviamo in tempi troppo lunghi: ecco sei punti chiave da conoscere per sapere dove siamo arrivati.
Hanno contribuito allo Speciale COP21: Marco Ferrari, Elisabetta Intini, Raymond Zreick e altri.

A mente fredda, senza i clamori degli annunci, è giunto il momento di un bilancio della Cop21, il vertice definito "l'ultima chiamata" per provare ad arginare, con decisioni politiche nette, la corsa dei cambiamenti climatici. Dopo 13 giorni, i negoziati hanno lasciato molti insoddisfatti: sia gli ambientalisti, sia alcuni governi, sia il mondo scientifico hanno visto nel risultato dei lavori un documento non vincolante e insufficiente.

Altri partecipanti, invece, ritengono che il trattato sia il risultato di un processo lungo e complesso, che ha partorito il miglior compromesso possibile in questo momento. Specialmente perché nel documento si citano due cifre ("ben sotto i 2 °C" e "sforzi per limitare la temepratura a 1,5 °C") che pongono limiti precisi per l'aumento della temperatura del sistema Terra.

Il processo avviato con la COP21 non è però ancora terminato, perché le misure avranno inizio solo trenta giorni dopo che almeno 55 Parti della convenzione che in totale assommano ad almeno il 55 per cento delle emissioni totali di gas a effetto serra firmeranno il tutto.

1. La differenziazione delle responsabilità. Come ci aspettavamo, le richieste dei Paesi in via di sviluppo hanno avuto un grande peso negli equilibrismi dell'accordo: del resto, le attuali superpotenze sono tali perché hanno potuto sfruttare a fondo l'epoca d'oro dei combustibili fossili.

Quello che emerge dalla COP21, tra l'altro, è che sarebbe necessario ridefinire il confine scivoloso tra (alcuni) "paesi in via di sviluppo" e (alcuni) "paesi industrializzati": come considerare, infatti, Cina e India, e il Brasile? La Cina, oltre che "paese in via di sviluppo" per la sua sola convenienza, è anche il primo emettitore al mondo di CO2 (anche se il primi emettitore pro capite sono ancora gli Stati Uniti). I paesi industrializzati hanno invocato, per i nuovi ricchi, lo stesso trattamento riservato a se stessi.

La denuncia di un ricercatore (vedi): se vogliamo contenere l'aumento di temperatura entro i 2 °C dobbiamo abolire i combustibili fossili entro il 2050.

2. I finanziamenti. Ci sono quelli destinati ai nuovi, necessari investimenti in energie rinnovabili nei paesi in via di sviluppo e quelli necessari all'adattamento ai cambiamenti climatici in atto.

Per non parlare della questione, ancora più "calda", dei risarcimenti per i paesi colpiti da siccità, cicloni o altri fenomeni meteo estremi legati alle conseguenze del riscaldamento globale o all'innalzamento del livello del mare.

Mentre su questo ultimo punto i paesi industrializzati sembrano più "freddi", l'accordo prevede un flusso di 100 miliardi di dollari annui - eventualmente aumentabili - da destinare ai paesi più penalizzati perché, con le "buone intenzioni", non avrebbero a disposizione gli strumenti di crescita che hanno fatto la grandezza dei paesi ricchi.

Il problema risiede nel fatto che i 100 miliardi di dollari promessi (che secondo alcuni economisti della London school of economics non sono sufficienti) sono citati nel preambolo e non nel trattato ufficiale stesso. La somma è quindi meno vincolante e non è certo che tutti i paesi sviluppati riescano o vogliano finanziare il fondo.

3. In calore... Il vertice di Parigi considera la soglia di 1,5 °C, ma senza prendere una posizione precisa: l'accordo prevede di mantenere l'aumento della temperatura "ben al di sotto dei 2 °C" e lascia le porte aperte ai + 1,5 °C, ma come auspicio, non come limite vincolante.

L'universo sommerso e le sue galassie di plancton (vedi). © Universidade do Algarve (Portogallo)

Per rientrare nei limiti occorre raggiungere le "emissioni zero globali" entro il 2050. Si parla di greenhouse gas neutrality per la seconda metà del secolo, obiettivo che lascia aperte le porte a un aumento più contenuto della temperatura, ma che non lo assicura. La frase greenhouse gas neutrality si presta infatti a molte interpretazioni, così come la seguente, presente nell’articolo 4: balance between anthropogenic emissions by sources and removals by sinks of greenhouse gases in the second half of this century (equilibrio tra le emissioni antropogeniche e la rimozione da parte dei serbatoi dei gas a effetto serra nella seconda parte del secolo).

Serbatoi di gas a effetto serra: sono le foreste e il plancton oceanico, che contribuiscono in eguale misura

Le due formulazioni non spiegano però come raggiungere l’obiettivo: potrebbe essere con la diminuzione delle emissioni di gas a effetto serra, o con l’aumento dell’assorbimento da parte dei sink. Si lascia però in questo modo la strada aperta anche alla geoingegneria e alla cattura e accumulo del carbonio (CCS), tecnologie poco sperimentate e secondo alcuni addirittura pericolose.

Per altri, però, il documento è un passo in avanti rispetto al vertice di Copenhagen del 2009, anche se in quel testo comparivano limitazioni alle emissioni del settore nautico e dell'aviazione che nell'accordo di Parigi non compaiono.

4. L'orizzonte temporale. Quali saranno gli impegni concreti per il "dopo 2030"? Non è stato dato un orizzonte temporale alla definizione del "picco di emissioni", ossia la soglia massima di emissioni che un paese può raggiungere. Si fa riferimento solo alla neutralità delle emissioni da raggiungere nella seconda metà del secolo, ma questa espressione non equivale a "emissioni zero": significa che i gas serra emessi potranno essere compensati in altro modo. Per le ong, sarebbe stato meglio utilizzare il termine "decarbonizzazione" per indicare un percorso che porti alla sostituzione dei combustibili fossili.

5. Autocertificazione. Le misure previste dal vertice di Parigi entreranno in vigore dal 2020 e l'appuntamento successivo per un primo bilancio è fissato per il 2023: troppo tardi, secondo molti addetti ai lavori.

Dopo quella data è prevista una revisione del trattato ogni cinque anni. Ed è lasciato ai singoli stati il compito di certificare i propri progressi e il rispetto dei propri impegni (Indc).

6. La giustizia climatica. Curioso dover usare la parola "infine" anziché "innanzi tutto" per ciò che riguarda il benessere dell'umanità (oltre che di tutti i viventi sulla Terra, dai microbi ai capodogli). I cambiamenti climatici sono anche una questione di diritti umani: la casa, il lavoro, la salute, l'acqua, la sicurezza alimentare... La pressione dei media, delle Ong e delle associazioni ambientaliste hanno infine evitato che i "diritti umani" o parti della questione fossero completamente evitate, tuttavia sarebbe ingenuo ritenere che la più ampia questione del tema "cambiamento climatico" non lascerà sul campo un buon numero di vittime.

17 dicembre 2015
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