Ecologia

'Operazione Ilva', Clini: "Fu un atto contro il Paese"

'Favorì competitor Ue e non, ma la politica italiana non ha avuto il coraggio di bloccarla'

Roma, 11 gen. - (AdnKronos) - Impegni ambientali posticipati, rilancio dell’azienda in alto mare, valore dell’impresa diminuito con un esproprio a metà “e in tutto questo è certamente problematico immaginare che qualcuno possa affittare gli impianti con un’operazione industriale spericolata”. E' la situazione dell'Ilva oggi, descritta all'Adnkronos da Corrado Clini. Fu proprio lui che nel 2012, ministro dell’Ambiente del governo Monti, impose all’Ilva un piano di risanamento da attuarsi entro tre anni. Piano che avrebbe dovuto essere completato entro il 2015 e che è invece ancora in gran parte non attuato, mentre ancora oggi il futuro dello stabilimento di Taranto resta incerto e il presente pesante.

“Su questo dovrebbero riflettere gli irresponsabili che hanno fatto di tutto perché l’Ilva chiudesse e che non potevano non sapere che mettere fuori mercato l’Ilva avrebbe dato un grande vantaggio ad altri competitors, europei e non, e impoverito la struttura industriale italiana già in forte crisi", spiega.

Una ‘operazione Ilva’, come la definisce Clini, su cui varrebbe la pena di riflettere “per capire tutta questa insistenza nel chiudere lo stabilimento di Taranto mentre in Europa ci sono altri stabilimenti che producono acciaio più o meno nelle stesse condizioni e che hanno potuto associare continuità produttiva e risanamento ambientale. Nonostante il mio impegno e nonostante io ci abbia messo la faccia dicendo le cose come stavano, la politica italiana non ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di bloccare questa operazione”.

Un’operazione che al momento non vede vincitori. “Lo stato ci mette più di un miliardo, l’azienda è costretta a mettere in cassa integrazione la metà dei lavoratori e perde mercato e valore senza nessun vantaggio. Nessuno paga, anzi siamo noi a pagare con i finanziamenti pubblici. Nel 2012 avevamo chiuso un’operazione che sembrava impossibile, convincendo Ilva ad accattare un ambizioso e avanzato programma di risanamento ambientale. Voglio ricordare - continua Clini - che prima di allora l’Ilva si era sempre opposta alle prescrizioni ambientali e aveva aperto contenziosi a raffica contro l'amministrazione. Aver fatto saltare quell'operazione è stato un atto contro il Paese”.

Per l’Ilva Clini aveva immaginato un percorso diverso che ripercorre in questa intervista. Venti giorni dopo aver rilasciato l’Aia, l’Ilva accettava tutte le prescrizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) assumendosi l’impegno a svolgere le attività entro 3 anni e chiedendo di poter usufruire della flessibilità prevista dalla legge per tali interventi.

L'Aia è stata introdotta da una direttiva Ue che individua il ‘driver ambientale’ come stimolo per l’innovazione tecnologica nell’industria tale da garantirne la competitività, “questo il senso della direttiva Ue, la logica secondo la quale mi ero mosso io e la sfida accettata dall’azienda", sottolinea Clini.

Ma nel frattempo un provvedimento del Gip di Taranto sequestrava all'Ilva beni finiti per il valore di un miliardo. E in aggiunta le stesse autorità che dovevano pronunciarsi sulla flessibilità richiesta da Ilva, sanzionavano l'Ilva stessa perché non rispettava gli impegni per i quali chiedeva la flessibilità. "Un'applicazione esemplare del cosiddetto comma 22 - commenta Clini - Non voglio dire che fu una manovra concertata, ma fu un errore. Sulla base di queste sanzioni è scattato il commissariamento. Decisione immotivata e a mio giudizio illegale, come ho spiegato nell'audizione alla Commissione Industria del Senato il 16 luglio 2013. L'obiettivo era far fuori i Riva ritenuti inaffidabili".

Ma con il commissariamento "si è tolta la responsabilità diretta della gestione degli impianti ai Riva affidandola a soggetti che, per quanto singolarmente preparati, non sono l’impresa. Sarebbe stato utile invece, finché si poteva, fermare il meccanismo e tornare indietro, chiudere l’esperienza commissariale e richiamare i Riva. Ma questo doveva essere fatto nei primi mesi del governo Letta quando però l’opinione di molti in Italia, tipo Landini e altri esponenti politici, era che i Riva non meritassero fiducia e che andasse sottratta loro la gestione della fabbrica”.

E’ stata invece messa in campo fatta un’operazione “stravagante”. “E’ subentrata la gestione straordinaria sulla base di un presupposto immotivato, impegnando risorse pubbliche in un’operazione che doveva essere invece a carico del privato col risultato che i tempi per il risanamento ambientale sono trasferiti a fine 2017".

Bene l’ipotesi delle cordate italiane, “spero davvero che ci siano imprese italiane pronte a subentrare ai Riva e ad assumersi le responsabilità dell’Ilva, ma questo significa che l’Ilva va venduta e per questo ci vogliono proprietari che vendono e incassano", continua Clini.

"Oggi dobbiamo scegliere se Ilva deve rimanere presidio produttivo del sistema industriale italiano. Federica Guidi ha fatto molto bene a lavorare su questo per cercare in qualche modo di consolidare questo obiettivo. Deve però essere utilizzato uno strumento diverso da quello messo in moto, bisogna rientrare nell’alveo del diritto altrimenti la procedura di infrazione Ue non ce la toglie nessuno. Complicato andare a spiegare all’Ue perché dobbiamo mettere noi un miliardo e passa quando l’impresa aveva detto che i soldi li avrebbe messi lei”.

La via d’uscita, secondo Clini, è di riportare la questione nel quadro di riferimento legale stabilendo: chi è il proprietario, perché deve essere espropriato, se i Riva siano ancora interessati, chi altri è interessato e quale prezzo deve pagare per subentrare.

Altrimenti “si entra in un ginepraio dal quale non si esce più aggravato da un lato dal rischio di infrazione e dall’altro dei contenziosi sul modello della vicenda Sir”.

11 gennaio 2016 ADNKronos
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