«Uno spazio geografico chiaramente delimitato, riconosciuto, dedicato e gestito, attraverso mezzi legali o altri mezzi efficaci, al raggiungimento della conservazione a lungo termine della natura con i servizi ecosistemici e i valori culturali associati»: questa è la definizione ufficiale di "area protetta" dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN, International Union for Conservation of Nature).
Obiettivo 30%. Tra gli obiettivi principali delineati nella prima bozza (che segue la bozza zero) del Quadro Globale per la Biodiversità post-2020, un piano d'azione pensato per salvaguardare la biodiversità e combattere i cambiamenti climatici, vi è la proposta di proteggere il 30% delle aree terrestri e marine di tutto il mondo. Proposta che ha scatenato una pioggia di critiche da parte di diverse associazioni, tra cui Survival International, che definisce il cosiddetto target 30x30 una "grande bugia verde".
I custodi della biodiversità. Secondo Survival la soluzione è un'altra, ed è semplice: lasciare che siano gli indigeni a occuparsi delle proprie terre. «Questi popoli sono i migliori custodi dell'ambiente», ci spiegano, citando uno studio pubblicato su World Development. «Laddove i loro diritti territoriali sono riconosciuti, i livelli di deforestazione e degli incendi sono notevolmente inferiori anche a quelli nelle aree protette, si hanno effetti di mitigazione dei cambiamenti climatici ed esiste un legame diretto e vitale tra diversità culturale e biodiversità. Non è un caso che l'80% della biodiversità del pianeta si trovi proprio nei territori indigeni», sottolineano.
La proposta delineata nella prima bozza del Quadro Globale per la Biodiversità post-2020 avrebbe dovuto essere approvata durante la prima parte della COP15 (Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica), tenuta online dall'11 al 15 ottobre, ma la discussione è ancora accesa e anche per questo la scadenza è stata rimandata ad aprile-maggio 2022, quando in Cina si terrà (si spera) in presenza la seconda parte della COP15.
Decolonizzare la conservazione. A marzo di quest'anno Survival ha lanciato un appello al presidente Mario Draghi, chiedendogli di fare un passo indietro rispetto all'obiettivo di trasformare il 30% del Pianeta in aree protette: «Lungi dall'essere una soluzione miracolosa, le aree protette provocano gravi violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni e delle comunità locali», si legge sulla lettera aperta consegnata dall'associazione al Presidente del Consiglio. Nonostante l'appello sembri essere caduto nel vuoto, l'associazione ha continuato a promuovere una serie di eventi informativi che mostrassero a tutti i punti deboli di una proposta, dicono, basata su modelli coloniali (come quello della conservazione-fortezza) e dannosi per l'ambiente e le popolazioni che ci vivono: lo scorso 2 settembre si è tenuto a Marsiglia (Francia) una lunga conferenza dal titolo "Our Land, Our Nature", durante la quale si è parlato degli aspetti negativi dei modelli di conservazione e di possibili alternative più rispettose dell'ambiente.
Già un fallimento. Alla conferenza è intervenuta Lara Dominguez, rappresentante dell'organizzazione per i diritti umani Minority Rights Group, che ha spiegato cosa si intende con target 30x30 e perché non è un modello da seguire. Secondo Dominguez abbiamo già visto che rendere protette delle aree del mondo non serve per salvare la biodiversità: lo ha dimostrato l'Aichi Biodiversity Target, piano adottato nel 2010 con l'obiettivo di proteggere almeno il 17% delle aree terrestri e il 10% delle aree costiere e marine del mondo entro il 2020. Oggi l'obiettivo per le aree terrestri è stato raggiunto, ma la perdita di biodiversità è immensa: non è forse questo, si chiede Dominguez, un esempio del fallimento delle aree protette?
«Le aree protette sono un modello coloniale che va superato», sottolinea, spiegando che le terre che vengono protette sono di fatto espropriate ai legittimi proprietari - gli indigeni -, che dovrebbero invece essere trattati come capi di Stato, con i quali discutere sul da farsi.
Un modello coloniale. Dello stesso avviso è Mordecai Ogada, esperto di conservazione e autore del libro "The big conservation lie", che spiega come il modello di conservazione sia un retaggio coloniale e un mezzo primitivo. «Il concetto di conservazione è nato da un'idea di Roosevelt, con l'istituzione del Parco Nazionale di Yellowstone nel 1872», afferma, evidenziando come dopo quasi 150 anni continuiamo a seguire un modello così antico e antiquato. Ogada si dice poi preoccupato dalla stessa definizione ufficiale di "area protetta", che afferma chiaramente che la conservazione dev'essere raggiunta attraverso mezzi legali "o altri mezzi efficaci". «Quali sono i mezzi efficaci di cui parlano?», si domanda, «Uccisioni, maltrattamenti, e violazioni dei diritti delle popolazioni indigene!».


Quello che vogliono far capire Ogada, Dominguez e le associazioni come Survival International è che il modello di conservazione-fortezza è superato e dannoso: oltre a essere fallimentare dal punto di vista ambientale (nella maggior parte delle aree protette, spiega Survival a Focus.it, sono ammesse attività estrattive e inquinanti), non rispetta i diritti degli abitanti delle terre da proteggere, violando le norme delle Nazioni Unite e la legge internazionale.
Un passo in avanti? A questo riguardo, nella prima bozza del Quadro Globale per la Biodiversità è stato aggiunto l'obiettivo 21, che recita: «Gli Stati firmatari assicureranno alle comunità locali, alle popolazioni indigene, alle donne, alle bambine e ai giovani un'effettiva ed equa partecipazione alle decisioni in tema di biodiversità, e rispetteranno i loro diritti sulle terre, i territori e le risorse».
Secondo Dominguez però, aggiungere questo punto non è sufficiente: «solo parole che non cambiano la realtà dei fatti...».