Secondo uno studio condotto dalla Scripps Institution of Oceanography della Università di San Diego, le stime sull'inquinamento da microplastiche sarebbero state finora al ribasso: il totale sarebbe da cinque a sette volte superiore a ciò che si era calcolato in passato, e raggiungerebbe gli 8,3 milioni di unità per metro cubo.
Reti più fitte. «Per anni abbiamo studiato le microplastiche nello stesso modo, servendoci di reti per raccoglierne dei campioni negli oceani», afferma Jennifer Brandon, oceanografa a capo dello studio. «Le maglie delle reti, però, erano troppo ampie, e non raccoglievano le microplastiche più piccole». Il 90% degli studi realizzati tra il 1971 e il 2013 sono stati quindi effettuati su plastiche che misuravano al massimo 333 micrometri (un terzo di millimetro di diametro); le microplastiche trovate da Brandon misurano invece fino a 10 micrometri (un centesimo di millimetro), meno di un capello.
Dalle salpe all'uomo. «Il problema della plastica è che rimane chimicamente plastica, non torna nell'ecosistema», spiega Brandon. «La maggior parte di essa è così resistente, che né i microbi nel terreno né l'acqua possono romperne i legami chimici». Brandon ha analizzato campioni di acqua di mare e salpe (salpida Forbes): queste ultime, da non confondersi con gli omonimi pesci, sono invertebrati gelatinosi che si nutrono di fitoplancton filtrato dall'acqua che pompano per muoversi. Il loro stomaco era un ricettacolo di microplastiche: delle cento salpe analizzate, il 100% aveva microplastiche nello stomaco. «È un risultato sorprendente», afferma l'oceanografa. «Ero convinta che in alcune non avremmo trovato plastica, poiché il loro stomaco si ripulisce piuttosto velocemente». Tutto questo ha ripercussioni anche su noi umani: nonostante non ci nutriamo direttamente di salpe, esse sono alla base della catena alimentare. Se un pesce mangia una salpa, e noi mangiamo quel pesce… la microplastica finisce indirettamente anche nel nostro stomaco.