Ecologia

Lotta al bracconaggio, in Italia almeno 7 aree 'calde'

Roma, 10 giu. (AdnKronos) - Sette zone 'calde' dove intervenire per contrastare l’uccisione illegale di uccelli selvatici: le Prealpi lombardo-venete, il Delta del Po, le coste pontino-campane, le coste e zone umide pugliesi, la Sardegna meridionale, la Sicilia occidentale e lo Stretto di Messina. A questi black-spot si aggiungono altre zone dove il bracconaggio, pur non essendo altrettanto intenso, appare comunque più frequente che nelle restanti parti del territorio, come la Liguria, la fascia costiera della Toscana, la Romagna, le Marche, il Friuli-Venezia Giulia. Sono i dati resi noti da Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale.

Sulla base di un'indagine condotta da Ispra, risulta come uccisione, cattura e commercio illegale di uccelli siano pratiche diffuse su tutto il territorio nazionale. Da parte sua, il ministero dell’Ambiente è stato incaricato di redigere una bozza di piano d’azione nazionale da sottoporre a consultazione pubblica e quindi ad approvazione nelle sedi istituzionali da parte delle amministrazioni competenti.

Per il sottosegretario all’Ambiente Barbara Degani, "il piano costituisce uno strumento di lavoro fondamentale e indispensabile per ottimizzare l’impiego delle risorse disponibili, coordinare l’attività dei diversi soggetti coinvolti a vario titolo nelle attività di lotta al bracconaggio e migliorare il quadro normativo esistente, oltre ad essere la risposta migliore che l’Italia possa dare alla Commissione Europea a seguito dell’avvio della procedura Eu Pilot. Per questo motivo faremo in modo di giungere al più presto ad una versione finale del documento".

Sempre secondo i dati raccolti dall’Ispra, nelle Prealpi lombarde (soprattutto a Brescia e a Bergamo) è diffusa la cattura illegale in autunno attraverso l’impiego di archetti, trappole, reti e vischio. Analoghe attività, condotte essenzialmente con reti e richiami, sono praticate nelle Prealpi venete e in Friuli. A restarne vittima sono soprattutto pettirossi, pispole, spioncelli e fringuelli, ma le specie che possono rimanere intrappolate sono moltissime, perché i mezzi di cattura utilizzati non sono selettivi.

Lungo la costa adriatica, invece, vengono condotte catture con reti verticali durante le ore notturne, attirando i migratori in arrivo dall’area balcanica (principalmente turdidi) con richiami acustici elettronici e luci artificiali. Spesso gli uccelli vengono catturati per essere venduti nel circuito della ristorazione, più raramente per consumo diretto delle carni. Nelle isole dell’Arcipelago Pontino e dell’Arcipelago Campano, le catture avvengono durante la migrazione di ritorno a partire dal mese di marzo, per poi proseguire sino a tutto maggio.

In Sardegna è diffusa una forma di bracconaggio ai tordi praticata principalmente tra novembre e febbraio nel Sulcis meridionale; qui i mezzi di cattura tradizionali sono rappresentati dai crini di cavallo, disposti sopra un rametto tra la vegetazione in modo da formare un cappio per gli uccelli che si posano.

Oggi molto spesso al posto dei crini vengono impiegati fili di nylon; inoltre sono utilizzate reti e trappole. Altro sistema utilizzato è un laccetto ancorato a terra per mezzo di filo di ferro, su cui viene infissa una bacca come esca. I tordi vengono uccisi per essere venduti ai ristoratori locali per la preparazione di un piatto tipico, le 'grive' (i tordi in sardo) al mirto. Anche in questo caso, dal momento che i mezzi di cattura non sono selettivi, oltre ai tordi vengono uccisi uccelli appartenenti a molte altre specie: tra le vittime più frequenti, pettirossi, occhiocotti, pernici sarde, fringuelli e frosoni.

Anche gli uccelli acquatici sono oggetto di bracconaggio, praticato spesso di notte, mediante l’utilizzo di mezzi di caccia vietati (come i richiami acustici elettronici), anche in aree protette e in periodi in cui la caccia è chiusa, a danno di specie cacciabili e protette. Tra le zone maggiormente interessate da queste pratiche illecite, spiccano il Litorale Domizio, in Campania, e le zone umide della Capitanata, in Puglia. Non mancano tuttavia segnalazioni di situazioni problematiche anche in altri contesti, soprattutto in alcune zone della Sicilia e del Delta del Po. In alcuni situazioni il contrasto a queste attività illecite risulta estremamente complesso per la difficoltà di esercitare controlli all’interno di aree vallive private interdette all’accesso, come nel Delta del Po e nelle lagune nord adriatiche (Venezia, Caorle, Grado e Marano).

L’abbattimento dei rapaci con armi da fuoco è una pratica tuttora diffusa su gran parte del territorio nazionale e l’incidenza del fenomeno è sottostimata, in quanto non tutti gli uccelli colpiti vengono recuperati. Attività questa che viene praticata in corrispondenza dello Stretto di Messina: gli uccelli vengono abbattuti mentre sono in migrazione attiva. Il numero di esemplari uccisi ogni anno sullo Stretto è stato molto elevato fino a un recente passato; la stima attuale è di 200-300 rapaci uccisi in primavera e 400-600 in autunno. Inoltre, il prelievo di giovani rapaci dai nidi, attività particolarmente redditizia, spinge molte persone a commettere furti di uova e pulcini, soprattutto nelle aree con economia svantaggiata.

L’uccisione, la cattura ed il commercio illegale di uccelli mettono a serio rischio la conservazione delle popolazioni di molte specie minacciate a livello globale, soprattutto nell’ambito del bacino del Mediterraneo, dove transitano milioni di uccelli durante le migrazioni. Per questo, già da diversi anni, la Convenzione di Berna e la Convenzione di Bonn stanno promuovendo attività per ridurre questa causa di mortalità ingiustificata ed illecita, anche attraverso l’attuazione di un Piano d’Azione Internazionale, denominato Piano d’Azione di Tunisi.

10 giugno 2016 ADNKronos
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