Siena, 18 nov. (AdnKronos) - Un gruppo internazionale di ricercatori dell'Università di Siena, della University of California (Irvine) e del Carnegie Institution for Science (Stanford) ha stimato l'ammontare di metano e protossido di azoto che i paesi rilasciano nell'atmosfera nella produzione di carne, assegnando poi questa quota di emissione alle nazioni nelle quali quella carne viene effettivamente consumata. Hanno così calcolato che le emissioni “nascoste”, perché assegnate al paese produttore e non a quello importatore, sono cresciute del 19% negli ultimi 20 anni.
La ricerca, appena pubblicata sulla rivista “Environmental Research Letters”, sottolinea l'importanza di aggiornare il computo delle emissioni dei paesi in base al consumo dei prodotti, e non in base alla produzione. “Al momento, tutte le politiche ambientali trascurano le emissioni incorporate nel commercio”, spiega Dario Caro, il principale autore della ricerca, svolta all'Università di Siena.
“I paesi non tengono conto delle emissioni di gas serra che stanno provocando altrove - aggiunge il professor Simone Bastianoni - In pratica, i paesi importatori scaricano le proprie responsabilità in termini di emissioni ad altre nazioni”.
Se la Russia è stata individuata come il maggiore importatore al mondo di emissioni “incorporate” nella carne, i ricercatori hanno rilevato un grande flusso di emissioni che “scorre” tra i paesi europei.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, l'Italia, che importa grandi quantità dei carne dalla Francia, causa 1.4 milioni di tonnellate di CO2 equivalente all'anno, ed è il più grande importatore di emissioni “nascoste”. Al secondo posto la Grecia, che, sempre dalla Francia, importa una quantità di carne che equivale all'emissione di 1.2 milioni di tonnellate di gas serra.
Un paese in via di sviluppo ad esempio, per mancanza di infrastrutture specifiche tende a produrre una grande quantità di emissioni negli allevamenti, e queste aumentano quando cresce la domanda di carne da parte di altre nazioni importatrici. Situazione che si sta verificando per esempio in Brasile, che è un grande esportatore.
“Così i paesi sviluppati stanno in qualche modo sfruttando le risorse dei paesi come il Brasile per soddisfare i loro consumi, senza essere minimamente responsabilizzati da un punto di vista ambientale. E non dobbiamo pensare solo alla produzione diretta di carne ma anche alle coltivazioni per la produzione di mangimi”, afferma Dario Caro.
Nello studio i ricercatori hanno analizzato dati di 237 paesi, rilevando che nel 2010, 36.1 milioni di tonnellate di CO2 equivalente sono state relative alla carne prodotta in un paese ma consumata in un altro. La gran parte delle emissioni deriva dal consumo di bovini (26.7 Mt di CO2eq), mentre in misura molto minore dal consumo di suini (7.3 Mt) e pollame (2.1 Mt).
Altri studi precedenti avevano quantificato le emissioni di CO2 “nascoste” in prodotti commerciati a livello internazionale, ma non erano stati rilevati dati a proposito di gas come il metano e il protossido di azoto, che costituiscono circa il 27.7% dei gas serra mondiali. Gli allevamenti di bestiame contribuiscono per un terzo di questo ammontare.
“Ora vogliamo proseguire la ricerca - conclude Caro - includendo tutte le emissioni che si producono non solo negli allevamenti ma anche nella produzione industriale di carne e nel trasporto, oltre che nel consumo di terra, acqua ed energia necessario alla commercializzazione di questi prodotti a livello internazionale. Inoltre, con la collaborazione dell’Università della California (Davis), stiamo lavorando sulla valutazione di alcuni importanti additivi da aggiungere ai cibi degli animali, allo scopo di mantenere la loro produttività attraverso un contemporaneo aumento delle loro prestazioni ambientali”.