Molte volte abbiamo sentito parlare del Great Pacific garbage patch, l'isola di rifiuti di plastica che galleggia nel Pacifico, e delle conseguenze che questa gigantesca chiazza di immondizia accumulata dalle correnti marine tra la California e le Hawaii ha sulla fauna marina.
Molti animali, come gli albatros, scambiano i rifiuti per cibo, morendo per la plastica ingerita. Meno note, tuttavia, sono le conseguenze più subdole della discarica marina: i frammenti di alcune materie plastiche si impregnano delle sostanze inquinanti disciolte nei mari, e le veicola nel corpo degli animali che la ingeriscono, immettendole nella catena alimentare.
Un gruppo di ricercatori dell'Università di San Diego che in passato aveva partecipato a una spedizione oceanografica all'interno dell'immondezzaio marino ha immerso piccoli pezzi di polietilene nelle acque della baia di San Diego per tre mesi. Il polietilene è la plastica più comunemente usata e non è di per sé tossico: viene infatti usato anche per confezionare gran parte degli alimenti che acquistiamo.
Trascorso il periodo di tempo, il team ha estratto i frammenti dall'acqua e li ha analizzati, scoprendo che avevano assorbito gran parte delle sostanze inquinanti rilasciate dai vicini stabilimenti industriali e militari. In particolare, la plastica mostrava alte concentrazioni di policlorobifenili, composti organici usati negli impianti di refrigerazione, e polibromodifenileteri, sostanze dalle proprietà ignifughe.
Gli scienziati hanno poi esposto alcuni pesci di piccole dimensioni (3 cm) della specie Oryzias latipes ai pezzetti di plastica inquinati. I pesciolini li hanno ingeriti riportando poi seri problemi al fegato, a differenza di pesci che non li avevano mangiati o che avevano ingerito plastica non "marinata" nell'acqua di mare.
Le conseguenze di questa silenziosa forma di inquinamento non affliggono solo i primi, piccoli consumatori della plastica: «Se un pesce più grosso mangia cinque di questi piccoli pesci che hanno ingerito plastica inquinata, assumerà cinque volte la dose di inquinanti; il pesce successivo, per esempio un tonno, mangerà a sua volta cinque pesci di media dimensione, assumendo 25 volte la dose iniziale di veleni. Questo fenomeno è chiamato biomagnificazione ed è noto da tempo» spiega Chelsea Rochman, a capo della ricerca.
Siamo così arrivati all'uomo, in cima alla catena alimentare: da tempo le agenzie per la protezione ambientale avvertono di non esagerare con il consumo di grandi pesci predatori, come il tonno o il pesce spada. E non solo perché così facendo contribuiremmo all'overfishing (un'eccessiva e irrazionale attività di pesca che impoverisce le risorse ittiche dei mari), ma anche perché queste creature, nutrendosi di pesci più piccoli, assumono grandi quantità di inquinanti (tra questi anche il mercurio, molto diffuso nel Mar Mediterraneo).
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