FIUMI LOCALI, CRISI GLOBALE I fiumi in crisi, titola la copertina del numero di settembre 2010 della prestigiosa rivista scientifica Nature, che dedica diverse pagine alle "minacce globali alla sicurezza idrica e alla biodiversità dei fiumi". Lo studio dimostra come l'inquinamento da un lato e l'aumento dei prelievi per uso alimentare dall'altro stiano rapidamente impoverendo le riserve d'acqua dolce del pianeta, al punto da prosciugare interi fiumi. Basta dare un'occhiata alle mappe di Nature per rendersi conto che la crisi idrica è globale: l'Italia e i Paesi del Mediterraneo spiccano fra le zone più a rischio (in buona compagnia), il che vuol dire che nei prossimi decenni succederà sempre più spesso di dover decidere chi avrà diritto all'acqua: le città, i campi o i fiumi.
Di allarme idrico si parla da diversi anni. Nel 2006 il giornalista scientifico britannico Fred Pearce ha raccontato nel suo Pianeta senz'acqua che cosa succede in quei luoghi della Terra dove i fiumi ormai si insabbiano prima di arrivare al mare e tutt'attorno avanza il deserto. L'impoverimento dei fiumi è uno degli aspetti della crisi idrica globale: l'acqua che in ogni bacino fluviale scorre attorno, sotto e sopra la superficie è in realtà un tutt'uno e perciò usi impropri o prelievi eccessivi in qualche punto impoveriscono in realtà l'intero sistema che alla fine non avrà più abbastanza acqua per il fiume stesso.
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SE NON CI SONO PIÙ LE MEZZE STAGIONI, CI SARANNO ANCORA I FIUMI? Finché continuerà a piovere e nevicare ci saranno ruscelli e fiumi... Certo, ma siamo sicuri che le stagioni siano - o rimarranno - ancora quelle di una volta? Secondo gli studi dell'IPCC, il centro di ricerca internazionale sui cambiamenti climatici, nei prossimi venti-quarant'anni in Europa i mutamenti del clima causeranno l'aumento delle precipitazioni nell'area a nord delle Alpi e la loro riduzione a sud. Ci sarà cioà più acqua dove già non manca e meno dove già scarseggia, che in sintesi vuol dire alluvioni e siccità. Per i bacini fluviali dell'area mediterranea si prevede una riduzione della portata media fino al 23% entro il 2020 e del 36% entro il 2070, anno in cui le portate estive dei fiumi si saranno ridotte dell'80% rispetto ad oggi.
Parallelamente l'aumento di temperatura dovuto al riscaldamento globale inaridirà i campi, che dovranno essere irrigati più frequentemente, aumentando così i prelievi d'acqua. Secondo le stime dell'Agenzia Europea per l'Ambiente (EEA, European Environment Agency) l'agricoltura europea consuma già oggi, in media, il 24% dell'acqua dolce totale (nei paesi mediterranei si arriva anche all'80%). Dell'acqua utilizzata per l'irrigazione solo il 30% ritorna alle falde o ai fiumi, il 70% evapora o viene assorbito dalla crescita delle colture attraverso la fotosintesi clorofilliana. L'abbassamento del livello dei fiumi e delle falde fa sì che nelle fasce costiere l'acqua salata del mare risalga le foci e "bruci" la vita d'acqua dolce.
TROPPO NUTRIMENTO LO SOFFOCA L'agricoltura non è solo la maggiore consumatrice di acqua dolce del pianeta, ma anche una delle principali cause del suo inquinamento. L'acqua che torna alle falde o ai fiumi dopo essere passata sui terreni agricoli trasporta pesticidi e fertilizzanti: lo studio dell'Agenzia Nazionale per la Protezione dell'Ambiente per il triennio 2003/2005 ha riscontrato nelle acque di fiumi e laghi italiani ben 112 pesticidi e altri 48 nelle acque di falda.
All'inquinamento agricolo si aggiungono gli scarichi industriali più o meno trattati, ma il nemico numero uno degli ambienti fluviali sono gli scarichi civili e zootecnici. I liquami sono di per sé dei fertilizzanti, ma il loro eccesso produce un'esplosione di vita acquatica che in breve tempo consuma l'ossigeno dell'acqua e l'ecosistema fluviale a quel punto va in "crisi respiratoria" e molte specie muoiono: è la cosiddetta eutrofizzazione. Da notare che in Italia la depurazione civile è ancora assolutamente insufficiente: secondo il censimento Istat del 2008 il totale dei liquami civili scaricato nei fiumi senza subire nessun trattamento di depurazione è paragonabile a quello prodotto da 41 milioni di abitanti.
Il peso di tutti questi fattori sull'ambiente fluviale e acquatico è insostenibile e il loro efetto è ormai evidenti. Il Wwf ricorda che a causa del degrado dell'habitat lacustre sono a rischio di estinzione 28 specie di anfibi su 37 e 49 specie di pesci d'acqua dolce su 50.
Se non vogliamo che si estinguano i fiumi stessi serve innanzi tutto sapere che cosa succede e perché: cominciamo da qui.
DAL GAMBERO DI FIUME AI BATTERI FECALI L'Aniene nasce da più sorgenti nel Parco dei Monti Simbruini, tra le provincie di Frosinone e Roma. Scorre prima verso nord-ovest in una stretta valle coperta di boschi, all'altezza di Marano Equo vira decisamente verso ovest e a Tivoli esce dai monti e scende verso Roma. Entra nella capitale dal quartiere Tiburtino e sfocia nel Tevere vicino a Villa Ada.
Dalle sorgenti fino a Tivoli l'Aniene è un bellissimo fiume dove si riproducono i gamberi di fiume; da Tivoli a Roma diventa il colatoio degli scarichi civili e industriali di un territorio fortemente sfruttato a usi abitativi, agricoli, industriali ed estrattivi. Quando l'Aniene arriva al Tevere, da risorsa è diventato un problema. Il maggiore inquinamento viene dagli scarichi civili che, anche se in parte depurati, sono sproporzionati alla portata del fiume e lo soffocano: «Secondo gli studi contenuti nel Piano Regionale di Tutela delle Acque riferiti al triennio 2001/2003, poco prima della confluenza nel Tevere le acque dell'Aniene presentano una contaminazione batterica da Escherichia coli di 2,5 milioni di UFC/100 ml, ossia oltre ogni limite, e le più recenti analisi dell'Arpa pubblicate confermano questa situazione», dichiara Lorenzo Parlati, Presidente di Legambiente Lazio.
LO ZOLFO DELLE CAVE NON FA BENE AL FIUME Più rassicuranti i dati sull'inquinamento chimico, confermati anche dai tecnici dell'Arpa di Roma, ma con qualche eccezione: «Nel tratto romano analizziamo le acque dell'Aniene in 3 punti e in generale gli inquinanti chimici sono in concentrazioni accettabili. A volte però riscontriamo solventi industriali come il tricloroetilene [più noto col suo nome commerciale, trielina] e altri, considerati in Italia "rifiuti pericolosi", ossia da non smaltire in fognatura. Più raramente troviamo metalli pesanti come piombo e nichel, ma in concentrazioni che non pregiudicano seriamente il buono stato delle acque», spiegano i tecnici.
La stessa sicurezza non la si può però avere per i sedimenti e gli organismi acquatici: «Come Arpa di Roma abbiamo l'incarico di misurare la qualità delle acque, ma non gli inquinanti chimici che si possono accumulare nei sedimenti e negli organismi». Ciò che si sa è che oltre agli scarichi fognari nell'Aniene finiscono anche quelli industriali: «Recentemente abbiamo denunciato uno scarico sotterraneo abusivo che probabilmente veniva da una cartiera», racconta Gianni Innocenti, di Legambiente Tivoli. «E un inquinamento sottovalutato è quello delle acque sulfuree sgorgate dagli scavi delle cave di travertino e pompate direttamente nell'Aniene, acque azzurre per l'alto tenore di zolfo di cui si può solo immaginare l'impatto ecologico sul fiume.»
LA SORGENTE È PER IL FIUME O PER L'AQUEDOTTO? Ma il vero pericolo che corre l'Aniene è di venire prosciugato dalle captazioni alle sue sorgenti per rifornire gli acquedotti locali: «Negli ultimi anni le autorità locali e nazionali hanno lanciato l'allarme per l'approvvigionamento idrico dei Castelli Romani», racconta Antonio Amati, del Comitato per l'Aniene. «Finché si è arrivati alla recente approvazione di un aumento della captazione di acqua dalle sorgenti perenni dell'Aniene per convogliarla nell'acquedotto del Simbrivio.
Ciò causerà un impoverimento della portata dell'Aniene e una ulteriore concentrazione degli inquinanti che comprometterà definitivamente l'ecosistema.»
Il Commissario per l'emergenza idrica dei Castelli Romani e per l'acquedotto del Simbrivio, Massimo Sessa, sostiene che quell'acqua è vitale per gli abitanti dei Castelli Romani, ma il Comitato per l'Aniene ha un'altra versione: «La carenza idrica ai Castelli Romani è il frutto della perdita del 50% d'acqua dai tubi dell'acquedotto, dell'edificazione eccessiva di seconde case e dei prelievi incontrollati da pozzi abusivi che hanno messo a rischio la stessa sopravvivenza dei laghi Albano e di Nemi». Grazie alla mediazione del Comitato per l'Aniene, di certo non indifferente alla sete degli abitanti dei Castelli, il 28 ottobre 2010 il commissario Sessa si è impegnato a ridurre il prelievo alle sorgenti da 690 a 360 litri al secondo e a rispettare il deflusso minimo vitale dell'Aniene.
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Per il fiume e la sua gente è già un grande successo, ma secondo il Comitato e i sindaci dei Comuni della Valle dell'Aniene è importante che ci si impegni anche a risolvere la carenza idrica ai Castelli Romani prima di tutto riducendo le perdite dagli acquedotti e che solo in casi eccezionali si possano aumentare i prelievi alle sorgenti. L'acqua pura, però, non fa gola solo ai Castelli Romani: a fine 2009 è stato firmato un accordo per portare l'acqua delle sorgenti dell'Aniene a Colleferro, Segni e Gavignano, Comuni in provincia di Frosinone. Qui il problema non è la carenza d'acqua in sé, ma di acqua di buona qualità: quella dell'acquedotto di Colleferro per esempio è risultata inquinata da batteri fecali sia nel novembre 2009 sia nell'ottobre 2010. Questi tre Comuni un loro fiume ce l'avrebbero, il Sacco (vedi avanti), ma è assolutamente inutilizzabile perché il letto e le sponde sono contaminati in modo cronico da pesticidi fuoriusciti da una vecchia discarica chimica.
DOPPIA IDENTITÀ, DOPPI PROBLEMI L'Aterno-Pescara è un unico fiume che prima si chiama Aterno e poi Pescara. Nasce sui Monti della Laga e scorre verso sud est toccando L'Aquila; a Raiano vira a nord e a Popoli cambia nome dopo essersi ingrossato delle acque di Sagittario, Gizio, Tirino e Pescara. A Bussi sul Tirino piega a nord est, esce dai monti e scende verso l'Adriatico toccando Chieti e Pescara, dove sfocia.
L'Aterno-Pescara è un fiume doppio anche nei suoi problemi: soffocato da scarichi civili e prelievi agricoli l'Aterno, minacciato da discariche di rifiuti chimici e sbarramenti il Pescara. «Nel 2006 fui nominato Commissario per la crisi socio-economica e ambientale dell'Aterno-Pescara e trovai un fiume più inquinato nel suo tratto iniziale che alla foce», ricorda l'architetto Adriano Goio. «Il problema era che gran parte dei centri abitati del sottobacino dell'Aterno non depurava assolutamente i propri scarichi: i liquami delle abitazioni finivano in buche nel terreno o direttamente nel fiume, i pochi depuratori erano inadeguati o non funzionavano.»
L'Annuario dei Dati Ambientali 2008 (Ispra) riporta una concentrazione di batteri fecali Escherichia coli di 225.000 UFC/100 ml nelle acque dell'Aterno a L'Aquila e di 14.750 alla foce del Pescara. «La situazione è aggravata dall'impoverimento della portata del fiume causata da prelievi agricoli eccessivi per compensare gli sprechi dei sistemi di irrigazione obsoleti», aggiunge Goio. Batteri e sostanze organiche si concentrano in un fiume che torna a respirare solo quando arriva nella conca di Sulmona, perché lì viene "rinvigorito" dalle acque di Sagittario, Gizio, Pescara e Tirino.
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CROLLA UN CITTÀ, INSIEME AI SUOI DEPURATORI A dare il colpo di grazia a una rete infrastrutturale inadeguata, nell'aprile 2009 arrivò la devastazione del terremoto. Insieme alle abitazioni a L'Aquila crollarono le infrastrutture e ovviamente anche i depuratori; gli sconvolgimenti della terra hanno persino deviato le falde acquifere. Goio assicura che la sistemazione di reti fognarie e depuratori è a buon punto e che si sta pensando anche a come razionalizzare i prelievi agricoli e idropotabili. Intanto però a febbraio 2010 il presidio locale dell'associazione Libera denunciava che i liquami dei nuovi alloggi di Assergi, Camarda, Paganica e Bazzano, quartiere simbolo della ricostruzione, finivano direttamente nell'Aterno e nei suoi affluenti senza depurazione. In realtà a Bazzano il depuratore era stato costruito in tutta fretta per poter inaugurare le nuove case, ma fino alla segnalazione di Libera era rimasto fermo perché mancava l'allacciamento alla rete elettrica.
ARMI CHIMICHE NEL LETTO Lasciandosi alle spalle le ferite dell'Aquila fortunatamente l'Aterno riceve le acque pulite di diversi fiumi e diventa il Pescara. Subito però incontra un nuovo pericolo: le discariche di rifiuti tossici del polo chimico di Bussi sul Tirino. In funzione dal 1901, vi furono prodotti anche i gas vescicanti impiegati in Etiopia (vedi I gas di Mussolini, di Angelo Del Boca). Nel corso di un secolo migliaia di tonnellate di residui di lavorazione sono stati sotterrati in più discariche, un paio scavate direttamente nel greto del Pescara e del Tirino: le ha scoperte il Corpo forestale dello Stato nel 2007.
Augusto De Sanctis, esperto di acque del Wwf Abruzzo, cita i dati dell'inchiesta della Procura di Pescara sulle responsabilità delle autorità che per anni utilizzarono l'acqua di queste falde per gli acquedotti e snocciola un bollettino di guerra: «I terreni e le falde fino a 100 metri sono gravemente contaminate da sostanze tossiche e cancerogene a base di cloro: cloroformio fino a 3.220.000 volte i limiti di Legge, tetracloroetano fino a 420.000 volte i limiti, mercurio fino a 1.240 volte i limiti...» e poi clorometano, cloruro di vinile e svariati altri inquinanti in quantità da migliaia a decine di migliaia di volte superiori ai limiti di Legge.
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Con tutto ciò «il Pescara al momento non sembra aver risentito troppo della contaminazione sotterranea», commenta De Sanctis, «ma le sue acque sono comunque inquinate da fenoli [disinfettanti] e idrocarburi e soffocate da sostanze azotate e batteri».
Come se non bastasse se la prendono con il fiume persino le energie pulite: «Sul Pescara si stanno costruendo due sbarramenti idroelettrici che, insieme, produrranno meno di due pale eoliche...», spiega Giovanni Damiani, ex direttore dell'Anpa (oggi Ispra) e assessore all'Ambiente dell'Abruzzo, oggi ricercatore all'Arta e presidente di Ecoistituto Abruzzo: «L'unico vero risultato concreto sarà lo stravolgimento dell'ecosistema fluviale». Le centrali stesse sorgeranno in un territorio fluviale già completamente stravolto dalla cementificazione.
IL LAMBRO HA TOCCATO IL FONDO Il Lambro nasce dai monti del Triangolo Lariano e scorre verso sud; a Erba (Como) esce dalle Prealpi e forma il Lago di Pusiano; scende poi in Brianza e attraversa l'area metropolitana di Monza e Milano, dove tramite canali artificiali riceve le acque di Olona e Seveso e tutti gli scarici civili e industriali. Dopo Milano piega leggermente verso sud ovest e arriva al Po a Orio Litta (Lodi) dopo aver attraversato la campagna lodigiana.
Ci voleva un disastro per ricordarsi del Lambro. Quello che è successo il 23 febbraio 2010 è stato raccontato più volte, ora si tirano le somme: «Di fronte all'emergenza è mancato il coordinamento fra le autorità», denuncia Marzio Marzorati, di Legambiente Lombardia. «Si allestirono gli sbarramenti ma non si pensò a inviare anche le cisterne per aspirare gli idrocarburi; con un piano collaudato forse avremmo fermato lo sversamento sul Lambro.» E invece l'onda nera è arrivata al Po e in parte al mare. Sul disastro del Lambro sta indagando la Procura di Monza, ma Legambiente invita a non abbassare la guardia: «È inaccettabile che un impianto industriale pericoloso in una delle aree più popolate d'Europa sia così vulnerabile a un attentato, ed è allarmante sapere che in Lombardia ne esistono altri 287 così a rischio».
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Passata l'emergenza si comincia a studiarne l'impatto. Dai bollettini di Arpa Lombardia le acque del Lambro risultano presto tornate alla situazione precedente allo sversamento, ma non è così per il fondale: nei campionamenti dei sedimenti di fine marzo 2010 si hanno concentrazioni di idrocarburi di 1.250 mg/kg a Milano e di 2.236 mg/kg a S. Zenone, a luglio si arriva a 2.868 mg/kg a Peschiera Borromeo. Sono numeri impressionanti se si pensa che quando in un terreno a uso industriale esposto a sostanze inquinanti viene riscontrata una concentrazione di idrocarburi superiore 750 mg/kg, quel terreno è considerato sito contaminato e per il proprietario scatta l'obbligo di bonifica.
MORTO ERA E MORTO È RIMASTO Ma il fondo del Lambro non è un'area industriale. In teoria è ancora il fondale di un fiume e quindi il limite della concentrazione di idrocarburi da non superare sarebbe quello previsto per le aree a verde pubblico e cioè 50 mg/kg. In pratica, però, i dati dell'Arpa ci descrivono un Lambro che più che a un fiume somiglia proprio a un sito contaminato. E come ci si aspettava, oltre agli idrocarburi, nei sedimenti l'Arpa ha riscontrato anche PCB e metalli pesanti (cromo, piombo, rame, stagno, zinco), tutti in concentrazioni ammissibili solo in siti industriali. È l'ennesima conferma che l'inquinamento del Lambro non è certo cominciato con il disastro della Lombarda Petroli, ma è il risultato di decenni di sviluppo urbano e industriale che hanno reso l'area milanese una delle più ricche d'Europa. Lo stesso commento dell'Arpa ai risultati delle indagini di questi mesi sullo stato della vita acquatica fluviale conferma il carattere cronico dell'inquinamento: "Le condizioni delle comunità biologiche, se confrontate con i relativi dati storici, non presentano significativi segni di variazione quanto a composizione e abbondanza tassonomica e nei giudizi di qualità da esse derivati, i quali continuano a indicare uno stato ambientale generalmente da scarso a cattivo", che tradotto dall'asettico burocratese sarebbe come dire "il Lambro morto era e morto è rimasto".
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IL LAMBRO SOFFRE A OGNI PIOGGIA Appassionato studioso di ecosistemi fluviali e della sua terra è il dottor Luciano Erba: «Per le giovani generazioni è impossibile immaginare la bellezza del Lambro di un tempo», afferma. Al suo fiume ha dedicato un libro, Lambro: l'inquinamento occulto: «Se nel tratto prealpino la qualità delle acque sta migliorando», spiega, «nell'area metropolitana il fiume è completamente snaturato per l'artificializzazione dell'alveo e l'afflusso abnorme di reflui civili e industriali che, seppure in buona parte trattati, sono del tutto sproporzionati alla portata». Ma il vero problema è più nascosto: «Il sistema dei collettori che trasporta le acque di fogna e i reflui industriali ai depuratori è concepito per raccogliere anche le acque piovane», spiega Erba.
«Così quando piove molto il collettore tracima e tutto finisce direttamente nel fiume senza trattamento». È esattamente quello che è accaduto il 23 febbraio, ma in realtà succede ogni volta che i collettori tracimano per le forti piogge (l'ultima volta il 6 settembre 2010). Senza contare che a ogni piena c'è chi ne approfitta per sversare liquami industriali e agricoli abusivamente, contando sul fatto che le acque ingrossate e intorbidite dalle piogge nascondono schiume e chiazze oleose. La prima soluzione al "problema Lambro" sarebbe la costruzione di due reti scolanti distinte: una per le fogne e una per le acque piovane.
17 MILIONI DI ABITANTI IN 60 METRI CUBI AL SECONDO In base ai calcoli dell'Autorità di Bacino del Fiume Po, nel periodo estivo la portata del Lambro è costituita per circa il 40% da acque di scarico. Calcolando anche i sottobacini dell'Olona e del Seveso, che attraverso una rete di canali anche sotterranei confluiscono nel Lambro, otteniamo l'equivalente di 17 milioni di abitanti: tutti i loro reflui vanno a finire in un piccolo fiume con una portata media di 60 metri cubi al secondo che in estate scende sotto i 10. Superata Milano le acque del Lambro tornano a respirare grazie all'apporto di acque risorgive sotterrane e ai tre grandi depuratori metropolitani inaugurati nel 2005, le cui acque di scarico paradossalmente sono più pulite di quelle del fiume. Dal 1987 il sistema Olona-Seveso-Lambro è "Area ad elevato rischio di crisi ambientale" e negli ultimi anni la Regione Lombardia sta studiando varie forme di recupero riassumibili nel concetto di Contratto di fiume (vedi Approfondimenti e link). Ma il disastro del 23 febbraio 2010 fa tornare indietro di diversi anni tutti i piani di recupero.
CHI LO CONOSCE LO EVITA L'Oliva nasce dalla confluenza di più rivoli che scendono dal Monte Scudiero, in provincia di Cosenza. Scorre verso sud ovest lunga la vallata omonima e attraversa piccoli comuni rurali come Aiello Calabro e Serra D'Aiello. Sfocia nel Tirreno a Campora San Giovanni. Può ingrossarsi per le piogge in autunno e primavera, ma prosciugarsi in estate.
Nonostante sia poco più di un torrente l'Oliva ha meritato l'attenzione dei vertici scientifici e istituzionali italiani. Le Arpa di Calabria, Piemonte, Emilia Romagna e Lombardia, l'Ispra, il Cnr, il Ministero dell'Ambiente, le Commissioni Parlamentari d'Inchiesta sui Rifiuti e sulla Mafia, le Università della Calabria e di Bologna, il Corpo Forestale dello Stato, il Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente e la Procura di Paola: in questi anni tutti hanno indagato sulla contaminazione dell'Oliva; le ultime campagne di studio sono in pieno svolgimento e i risultati sono coperti dal segreto istruttorio per l'inchiesta della Procura di Paola.
Per capire la preoccupazione di investigatori e scienziati si deve partire dal giudizio di un medico: «Nello studio che ho condotto tra il 2008 e il 2009 per conto della Procura», spiega il dottor Giacomino Brancati, consulente tecnico d'ufficio nell'indagine, «ho evidenziato che nella popolazione che nei decenni scorsi ha vissuto nella valle dell'Oliva vi è un evidente eccesso di mortalità e di ricoveri per malattie cardiovascolari e soprattutto per tumori maligni del colon, del retto, dell'apparato genito-urinario, della mammella e della tiroide». E la mortalità - secondo questo studio - aumenta avvicinandosi al fiume.
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RIFIUTI RADIOATTIVI Cosa ci sia di pericoloso nell'Oliva lo aveva già scoperto nel 2004 l'Arpa Calabria e negli anni successivi molte altre indagini hanno purtroppo confermato i risultati: nei sedimenti e terreni dell'Oliva ci sono metalli pesanti tossici e cancerogeni come arsenico, rame, zinco, nichel, vanadio, berilio, piombo, mercurio, selenio, tallio e stagno, oltre a PCB e diossine. Il piombo è stato trovato anche nelle carni dei polli, prova che la contaminazione è entrata nella catena alimentare. Ma soprattutto in alcuni punti sono stati trovati cesio 137, antimonio 124 e cadmio 109: radionuclidi di origine artificiale, ossia rifiuti radioattivi. La concentrazione di queste sostanze, che non possono essere state rilasciate da industrie locali, aumenta scavando in profondità nel terreno: qualcuno ha seppellito rifiuti industriali tossici e radioattivi in questa piccola valle calabrese.
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LA MAPPA DELLE DISCARICHE Il primo allarme l'aveva lanciato il Wwf locale nel 1999, ma era stato accusato di rovinare l'immagine turistica della Calabria. Nel 2004 alcuni militanti fondarono il Comitato civico Natale De Grazia e nel 2009 hanno pubblicato il dossier La valle dei veleni, che ricostruisce la situazione nel dettaglio. «Risalendo il fiume Oliva dal mare verso le sorgenti si incontrano quattro aree fortemente contaminate», spiega Gianfranco Posa, presidente del comitato. «Sotto lo sbarramento, a Serra D'Aiello c'è un sarcofago in cemento armato lungo 100 metri contenente mercurio e rifiuti industriali. Poco più sopra, sulla sponda sinistra, a Foresta c'è un'area contaminata da pcb e diossine, metalli pesanti e sostanze radioattive: si nota rispetto al territorio circostante perché intorno gli alberi sono secchi. Risalendo ancora, sulla riva destra si incontra una discarica abbandonata dove durante l'emergenza rifiuti degli anni '80 i comuni della zona hanno scaricato tonnellate di rifiuti urbani, industriali e ospedalieri. Infine, poco sopra c'è una cava abbandonata dove è stata rilevata una evidente anomalia termica per la forte presenza di sostanze radioattive nel sottosuolo.
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Qui il fiume lo si guarda "al contrario" e cioè dal mare, perché alcuni pensano che una parte dei rifiuti sia arrivata da lì. Il 14 dicembre 1990 la motonave Jolly Rosso si arenò su queste spiagge: anche se finora le inchieste non sono riuscite a provarlo rimane il sospetto che quella nave trasportasse rifiuti tossici per conto dei "soliti noti" e che dopo il naufragio qualcuno li abbia fatti sparire sotterrandoli nella valle dell'Oliva.
DALLA DISCARICA AL CONSUMATORE Il Sacco nasce dalla confluenza di diversi fossi e torrenti che scendono dai Monti Lepini, Prenestini ed Ernici, tra le provincie di Roma e Frosinone. Scorre regolarmente verso sud-est attraversando longitudinalmente la Ciociaria e sfocia nel Liri a Ceprano.
L'ecosistema del Sacco viene distrutto dal primo centro abitato che incontra, Colleferro, dal 1912 polo metalmeccanico e chimico con produzioni anche militari. Le prime denunce per inquinamento risalgono al 1955, le prime condanne al 1993; ma il peggio è stato svelato dall'Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Lazio e Toscana solo nel 2005: in seguito a controlli di routine del Piano Nazionale Residui, il latte di allevamenti lungo il Sacco risultò contaminato da betaesaclorocicloesano, un potente insetticida a base di cloro. I successivi controlli hanno rivelato che tutti i terreni lungo l'intera asta fluviale fino alla confluenza nel Liri erano irrimediabilmente contaminati: i fusti di insetticida che la Snia Bpd aveva interrato in 3 aree a ridosso del Sacco col tempo si erano corrosi e il prodotto aveva contaminato le acque del Sacco.
Le esondazioni periodiche e l'irrigazione hanno poi fatto il resto spargendo il veleno su campi e pascoli e, da lì, nell'intera catena alimentare. Un'emergenza economica, ambientale e sanitaria: migliaia di capi di bestiame dovettero essere abbattuti, i terreni lungo il fiume vietati a coltivazione e pascolo e la popolazione locale sottoposta a controlli medici: «Dalle analisi campionarie è emerso che chi ha vissuto vicino al fiume e consumato carne, latte e latticini di animali nutriti con foraggi locali ha nel sangue una concentrazione di betaesaclorocicloesano da 3 a 4 volte superiore al resto della popolazione. E abbiamo trovato anche PCB e metalli pesanti, seppure in concentrazioni non allarmanti», spiega il dottor Francesco Blasetti, dell'Asl Roma G. «L'insetticida si accumula nei grassi e viene espulso molto lentamente, per esempio attraverso l'allattamento. Ora è in corso una sorveglianza sanitaria su 800 persone contaminate per studiare gli effetti a lungo termine su organi e apparati come il sistema immunocompetente, il fegato, le reni e il sistema riproduttivo, mentre per controllare l'effetto sul sistema nervoso centrale vengono effettuate anche visite neuropsichiatriche. Nella sua complessità, è uno degli studi tossicologici più importanti a livello mondiale.»
Agli ambientalisti preoccupati dai rischi dell'incenerimento di biomasse coltivate sui terreni contaminati Di Palma assicura che dai risultati delle prove le emissioni risultano a norma. A ottobre 2010, però, l'associazione Rete per la tutela della Valle del Sacco e le associazioni degli agricoltori di Coldiretti e della Confederazione Italiana Agricoltura hanno presentato un progetto alternativo elaborato insieme al Dipartimento di Produzioni Animali della Facoltà di Agraria dell'Università della Tuscia: bonificare i terreni utilizzando particolari batteri e piante, più efficaci dei pioppi nella decomposizione del betaesaclorocicloesano, e realizzare piccoli impianti per la produzione di biogas dai liquami degli allevamenti esterni alla fascia contaminata, in modo da preservare la vocazione agro-zootecnica del territorio. Nonostante pioppi, barriere idrauliche e bonifiche, però, il Sacco resta in pessimo stato: «Il problema non è solo il polo industriale, ma anche l'insufficiente depurazione degli scarichi civili», spiega Francesco Raffa, di Legambiente Frosinone: «Noi qui siamo abituati a vedere galleggiare sul fiume metri di schiuma». Un "panorama" confermato dalle indagini per il Piano di tutela delle acque, dalle quali risulta che il 32% degli scarichi civili del bacino del Sacco non è trattato.
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UNA GALLINA DALLE UOVA... ALLA DIOSSINA La contaminazione, però, non viene solo dall'acqua: nel 2009 l'Istituto Zooprofilattico ha riscontrato PCB e diossine in uova di gallina al di sopra dei limiti di legge a Quattro Strade, una frazione di Anagni. La fonte dell'inquinamento non è ancora nota, ma «Proprio al centro della zona contaminata c'è uno dei pochissimi impianti di incenerimento di pneumatici in Italia», segnala Alberto Valleriani, presidente della Rete per la tutela della Valle del Sacco: «Recentemente l'azienda aveva chiesto l'autorizzazione per incenerire anche il cosiddetto car-fluff, ossia i residui non metallici della demolizione degli autoveicoli, che sono potenzialmente più pericolosi dei pneumatici.
Per fortuna l'intervento di associazioni e comitati, del Comune e della Provincia ha per adesso bloccato il progetto».
IL MEDIOEVO CONTEMPORANEO Il Saline nasce a Congiunti (Pescara) dalla confluenza di due piccoli fiumi che scendono dal Gran Sasso: il Fino e il Tavo. Dopo soli 10 km sfocia nell'Adriatico a Montesilvano (Pe).
Il Saline era un fiume. Oggi è un Sito di Interesse Nazionale. Contaminato, anzi, di più: «Una discarica lineare», lo definisce Giovanni Damiani, ex direttore dell'Agenzia nazionale Protezione ambiente e assessore all'Ambiente dell'Abruzzo e oggi ricercatore di Arta e presidente di Ecoistituto Abruzzo. «Negli anni '90 mancava un piano regionale di gestione dei rifiuti e così cominciarono a lasciarli sulle rive del Saline affidandosi alla piena perché li gettasse a mare: agricoltori e piccole industrie in primis, ma anche i cittadini e persino le amministrazioni comunali. E da ultime le organizzazioni criminali.»
Il metodo poteva funzionare nel medioevo, ma applicato a una realtà fortemente industrializzata ha fatto sì che oggi l'intero corso del Saline e parte di quelli del Tavo e del Fino sono invasi da rifiuti di ogni tipo. Scavando nel greto del fiume si trova di tutto: pneumatici, rottami, teli di plastica delle serre, amianto, mobili ed elettrodomestici, fusti di plastica e batterie esauste. Giù fino a tre metri di profondità. A quelli in superficie ogni tanto "gli si dà fuoco per ridurli e perché si usa così". I primi risultati dell'Arta sono da brivido: «PCB e diossine nei terreni e nei sedimenti fluviali e marini. In alcuni punti, concentrazioni superiori ai limiti tabellari di piombo, zinco, idrocarburi e solventi. Nelle acque superficiali e sotterranee numerosi inquinanti quali solfati, manganese, nichel e solventi industriali. Diffuso inquinamento di origine organica da scarichi fognari civili, allevamenti e altre fonti».
UN FIUME DA BUTTARE Chi non riesce a crederci può dare un'occhiata alle foto dell'Horror Tour dell'associazione Mare Libero: «Le abbiamo scattate due anni fa, ma nel frattempo la situazione è peggiorata», racconta Loredana Di Paola, una delle fondatrici. «Abbiamo chiesto alle autorità che almeno chiudessero le strade di accesso al fiume e aumentassero la sorveglianza, ma qui si continua a scaricare nel fiume di tutto: i cittadini i rifiuti solidi urbani e le aziende i rifiuti speciali e pericolosi.» Le analisi dell'Arta proseguono lentamente, la messa in sicurezza e la bonifica dei terreni contaminati sono a un punto morto e leggendo il rapporto della Regione si capisce il perché: «Sulla base delle conoscenze attuali si renderebbe necessaria la rimozione di un quantitativo stimabile in oltre 1.500.000 di metri cubi di terreno contaminato da diossine e PCB, ma a tutt'oggi non sono presenti nella nostra Regione - e neanche in Italia - gli impianti che potrebbero riceverlo».
Il fiume Saline è incluso nell'elenco dei SIN dal 2003 e dopo 7 anni non si sa ancora che cosa fare. Perché si dovrebbe buttar via il Saline intero con tutto dentro: acqua, sedimenti, sponde, flora e fauna e persino i terreni agricoli irrigati con quell'acqua.
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UN TUFFO ALLA SALMONELLA Intanto si continua a riempire di rifiuti un fiume con una portata che quando va bene è di 5 metri al secondo e quando va male è secco come il deserto. «D'estate capita che il Saline si fermi e diventi uno stagno verdastro», commenta Damiani, «a causa dei prelievi eccessivi a monte per colmare le perdite di acquedotti e reti di irrigazione e per alimentare le centrali idroelettriche». Oltre che dai rifiuti abusivi il Saline è minacciato anche dalle discariche autorizzate: «Quella di Montesilvano è stata costruita in riva al fiume senza barriere per il percolato», aggiunge Augusto De Sanctis, esperto di acque del Wwf Abruzzo. È vero che si è cominciato a mettere in sicurezza la discarica, ma la bonifica è ferma e il percolato denso di batteri filtra nelle falde e nel fiume. Le conseguenze?
Nel 2008 alla foce del Saline si trovò la salmonella: scattò il divieto di balneazione per le spiagge limitrofe, ma dopo un po' gli albergatori fecero togliere persino i cartelli dei divieti perché danneggiavano l'immagine dell'Abruzzo.
INDEGNO DI UN PAESE CIVILE Il Sarno nasce da più sorgenti ai piedi del Monte Saro sopra Sarno (Salerno), scende verso sud-ovest attraversando l'agro sarnese-nocerino e a valle di San Marzano riceve il canale Alveo Comune, alimentato dai torrenti Solofrana e Cavaiola. Sfocia nel Golfo di Napoli a Rovigliano, frazione di Torre Annunziata (Sa).
A 200 metri dalla sorgente il Sarno non è già più un fiume, ma una fogna. I liquami del territorio che lo circonda, l'agro sarnese-nocerino, finiscono direttamente nel suo alveo o nella terra nuda. "[...] il bacino del Sarno, pur presentandosi come un territorio fortemente antropizzato e con elevato livello di insediamenti produttivi, dispone di un sistema infrastrutturale di ricezione e smaltimento dei reflui assolutamente inadeguato e non degno di un paese civile", riporta nel 2006 la relazione conclusiva della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'inquinamento del fiume Sarno e, più chiaramente, "[...] il vero problema è che questo fiume ha il compito di drenare un'area urbana priva di fogne".
Per la contaminazione chimica tipicamente industriale i dati della relazione parlano di PCB e metalli pesanti tossici come cromo, rame, cadmio, cobalto, selenio e tellurio, seguiti da fitofarmaci, diserbanti e fertilizzanti dilavati dai terreni agricoli. Ma l'inquinamento più devastante è quello organico, di origine sia civile sia industriale, in particolare quello delle concerie dell'alto Sarno e dell'industria di lavorazione del pomodoro.
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PARKINSON, CANCRO, COLERA Storico appassionato di questo territorio è il professor Stefano De Pace, oggi delegato di Legambiente al Parco del Sarno, fragile speranza di rilancio ecologico: «Le concerie erano presenti già nel medioevo e all'inizio del '900 il pomodoro San Marzano era un'eccellenza della nostra agricoltura e industria conserviera. Poi dalla fine degli anni '60 i contributi statali innescarono uno sviluppo incontrollato: oggi le concerie sono passate da 20 a 450 e il pomodoro lavorato da 6 a 120 milioni di quintali. La materia prima arriva da tutta Italia su colonne di camion e la qualità è sostituita dalla quantità: l'impatto sarebbe già enorme se gli scarichi venissero depurati, immaginatevi in assenza di trattamenti...».
Scaricare i liquami civili e industriali direttamente nel fiume ha fatto impennare la proliferazione batterica. Uno studio sulle acque del Sarno dell'Istituto superiore di Sanità del 2002-2003 riporta una contaminazione da batteri fecali circa 2 milioni di volte superiore al limite per gli scarichi dei depuratori e la presenza diffusa di salmonella e persino del colera. Studi epidemiologici approfonditi sulle conseguenze sanitarie dell'inquinamento del Sarno sulla popolazione locale non ne sono mai stati fatti, ma i dati della Commissione d'inchiesta parlano chiaramente di aumento di patologie respiratorie,
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tumori dell'apparato respiratorio e urinario e persino della diffusione fra i giovani del morbo di Parkinson.
Negli ultimi 30 anni si è cercato più volte di mettere mano al disastro, ma in questa terra strangolata dalla camorra l'ambiente diventa un lusso.
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VIVA IL GENERALE! SÌ, MA POI? Oggi la speranza viene dal lavoro di un ex generale dei Carabinieri di 84 anni, Roberto Jucci, dal 2001 commissario per l'Emergenza socio-economico-ambientale del Sarno. I suoi compiti sono due: da un lato fermare l'inquinamento costruendo fogne e depuratori e dall'altro bonificare sedimenti e terreni già contaminati. Data l'assenza di un piano regolatore, quando si scava esce di tutto: fogne abusive, linee elettriche, tubazioni e aree archeologiche. I lavori hanno subito forti ritardi, ma dai rapporti del 2010 risultano a buon punto.
Nel frattempo sono partiti il dragaggio e il trattamento dei sedimenti contaminati, che però devono essere smaltiti fuori regione perché in Campania mancano le discariche autorizzate. Se ci voleva un generale per costruire le fogne, proprio la sua presenza comporta rischi «di deresponsabilizzazione degli enti locali e delle aziende che gestiscono il servizio idrico», mette in guardia Giancarlo Chiavazzo, presidente di Legambiente Campania. «Quando il commissario avrà finito il suo compito e se ne sarà andato, saranno loro che dovranno far funzionare le fogne e i depuratori e controllare che gli scarichi industriali vengano trattati correttamente.»
TUTTI BUONI! COME SI DANNO I VOTI AI FIUMI? Il tipo di controlli ecologici condotti sui fiumi italiani da enti come le Arpa è in piena evoluzione per adeguarsi alle normative Comunitarie, in particolare alla Water Framework Directive (link ai documenti in italiano). Un indicatore ancora utilizzato è il SECA (stato ecologico dei corsi d'acqua), che riassume due parametri: il LIM e l'IBE. Il primo valuta la qualità delle acque dal punto di vista chimico e batteriologico, il secondo la qualità della vita biologica. Questi parametri sono necessari in coppia perché ha poco senso misurare la sola qualità chimica dell'acqua in un dato istante, in quanto varia con lo scorrere della corrente (vedi anche Il Lambro è già tornato pulito?). È invece utile condizionare la valutazione dello stato di salute di un fiume sulla base dello sviluppo e della varietà degli organismi che ci vivono: per ottenere queste informazioni i ricercatori prelevano campioni di sedimenti dal fondale e studiano al microscopio quali e quanti micro-invertebrati contengono. Se prevalgono specie molto delicate vuol dire che in quel punto il fiume è sano, mentre la prevalenza o la presenza di sole specie capaci di resistere agli inquinanti indica che lì il fiume è degradato. Sulla base di questa doppia valutazione il SECA ha 5 gradi di giudizio: ottimo, buono, sufficiente, scarso e pessimo. Secondo l'Annuario Ispra 2009 il patrimonio fluviale italiano è così suddiviso: 4% ottimo, 41% buono, 33% sufficiente, 17% scarso, 5% pessimo.
La Water Framework Directive sancisce che tutti i fiumi devono raggiungere il grado buono entro il 2015.
RETICOLO E BACINO... COM'È FATTO UN FIUME? Siamo abituati a pensare ai fiumi come a linee sinuose che vanno dalle sorgenti alla foce. Per l'idrologia però, la scienza che studia i fiumi dal punto di vista "tecnico", un fiume è una rete: è l'intrico di tutti i ruscelli, torrenti, fossi, canali che in un modo o nell'altro convergono nel fiume principale. Questo è il reticolo idrografico. Se volete una similitudine, somiglia al reticolo di venature che si vede su di una foglia, ma nel nostro caso bisogna aggiungere un'altra dimensione, il "3d", che fa della nostra foglia una conca. Questo è il cosiddetto bacino imbrifero. Riassumendo, un fiume è il risultato di tutta la pioggia che cade su di una vallata più o meno ampia e che scendendo verso il mare in parte si infiltra sottoterra creando le falde acquifere e in parte crea un corso d'acqua che scorre sul fondo della valle stessa, e ogni corso d'acqua è la somma dei suoi affluenti e delle acque sotterranee che riaffiorano dal sottosuolo.
COME "FUNZIONA" UN FIUME? La caratteristica principale di un ambiente fluviale è di avere una forte corrente che impedisce la crescita di una vera e propria flora su cui possano pascolare erbivori che a loro volta siano predati da carnivori. Il cibo può arrivare solo dall'esterno del sistema e cioè da tutti quei detriti organici che in un modo o nell'altro cadono nel fiume (è il cosiddetto input alloctono). Questo materiale organico viene digerito dai batteri che a loro volta vengono predati da invertebrati e poi... be', pesce grande mangia pesce piccolo. Questa dipendenza da un apporto organico esterno è la ragione principale della capacità dei sistemi fluviali di "digerire" e metabolizzare anche sostanze prodotte da attività umane, a patto di saper stare nei limiti.
LA COMPLESSITÀ: COME SI STUDIA IL FIUME? Qualunque sia il punto di vista (ossia la disciplina scientifica: geografia, geologia, idrologia, ecologia, biologia eccetera), la chiave comune a tutti è la comprensione della complessità di relazioni tra i cambiamenti continui dell'ambiente fluviale. Per esempio, in base alle precipitazioni variano la portata e il livello dell'acqua e si creano ambienti di confine che restano normamente emersi ma che verranno nuovamente sommersi alla piena successiva; l'erosione e la deposizione di detriti modellano le anse e creano isole e lanche, canali secondari dove la corrente quasi si ferma e dove molti pesci trovano l'habitat ideale per la riproduzione; nei pressi della foce si creano ampie zone paludose dove l'acqua dolce si mescola a quella salata.
Queste dinamiche incessanti hanno ispirato filosofi ("tutto scorre come un fiume", Eraclito) e artisti (Sul bel Danubio blu, Johann Strauss), rendendo nel contempo più difficile, e più interessante, il lavoro dei ricercatori.
L'EQUILIBRIO: COME USIAMO I FIUMI? In Italia utilizziamo i fiumi in vari modi: come fonte d'acqua per irrigare i campi, come colatoi dove scaricare i reflui civili e industriali (possibilmente dopo averli depurati), per produrre energia elettrica, per trasportare merci (sul Po), per pescare e come meta di vacanze e gite fuori porta. Un fiume è però prima di tutto un ambiente naturale dove si sviluppano la vita vegetale e animale, e quando è sano, prima che arrivi al mare ci avrà persino aiutato a smaltire parte dell'inquinamento di cui l'abbiamo caricato. Ma se questo è sproporzionato rispetto alla portata d'acqua e se l'habitat naturale viene stravolto da sbarramenti e canalizzazioni, il fiume "muore" e perde ogni capacità di rigenerazione: diventa un semplice canale che trasporta velocemente tutto il nostro "sporco" direttamente in mare.
PUNTUALE E DIFFUSO: COME SI INQUINA UN FIUME? Tutti contribuiamo all'inquinamento dei fiumi: l'industria, l'agricoltura, l'allevamento e naturalmente anche i centri urbani. In generale si possono distinguere due tipi di fonti di inquinamento: puntuali e diffuse. Le prime comprendono tutti i singoli scarichi industriali e urbani più o meno grandi, le seconde sono le acque di dilavamento delle grandi superfici agricole, industriali e urbane. Avete presente la schiuma che si forma sulle strade alle prime gocce di pioggia, dopo un periodo di siccità? Anche quella va a finire nei fiumi. Il killer dei fiumi è l'eutrofizzazione, ovvero lo sviluppo abnorme di microorganismi innescato da un eccesso di "nutrienti" come i fertilizzanti dilavati dal suolo e i liquami civili e zootecnici: troppi microorganismi consumano progressivamente l'ossigeno dell'acqua e a quel punto le specie animali e vegetali più sensibili soffocano.
DEFLUSSO MINIMO VITALE: COME SI PROSCIUGA UN FIUME? Industria, alimentazione, energia... l'acqua dei fiumi ci è indispensabile! Se però da un corso d'acqua o dalle sue sorgenti se ne preleva troppa per l'agricoltura o per usi potabili o, quando le conzioni lo permettono, per produrre elettricità, la sua portata si assottiglia: il fiume diventa così invivibile per gli organismi che lo abitano e nei casi più gravi si prosciuga prima di arrivare al mare. Per questo la Water Framework Directive dell'Unione Europea (Direttiva 2000/60/EC: vers. in inglese, doc in italiano) obbliga gli stati membri ad assicurare il Deflusso Minimo Vitale dei fiumi, ossia uno stato che permetta il proliferare della vita vegetale e animale e che è calcolato dai ricercatori in base alle caratteristiche particolari del singolo fiume.
È anche importante tenere presente che i corsi d'acqua risentono anche degli eccessivi prelievi dalle falde sotterranee: se infatti si pompa troppa acqua dal sottosuolo il livello della falda scende e "risucchia" una parte di quell'acqua sotterranea che alimenta il fiume dal sottosuolo attraverso le risorgive (o fontanili). L'acqua dolce all'interno di un bacino fluviale è un corpo unico e quando se ne preleva troppa in uno o più punti gli effetti si percepiscono nell'intero bacino: sul fiume sono più evidenti perché questo è la somma finale di quello che succede lungo tutto il bacino.
LA SORVEGLIANZA: CHI VIGILA SUI FIUMI? Controllare l'ambiente fluviale per prevenire reati ambientali è un compito molto difficile a causa dell'estensione dei reticoli e della difficoltà per uomini e mezzi di raggiungerli. Per questo motivo spesso le rive dei fiumi italiani sono "terra di nessuno" e teatro di reati che vanno dalla pesca di frodo allo scarico illecito di rifiuti. In Italia i due corpi che principalmente svolgono servizio di vigilanza e polizia ambientale sono il Corpo Forestale dello Stato (CFS) e il Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente. Mentre quest'ultimo viene normalmente coinvolto in operazioni particolari, per esempio in presenza di reati gravi come l'associazione mafiosa (come nel caso del fiume Oliva, vedi scheda), il Corpo Forestale conduce un'attività investigativa più continuativa attraverso i Nuclei Investigativi Provinciali di Polizia Ambientale e Forestale (NIPAF). Recentemente il CFS si è dotato anche di veri e propri laboratori mobili su furgoni 4x4 attrezzati in modo da poter fare analisi in tempo reale anche in luoghi difficili da raggiungere. Oltre ai Corpi Militari, svolgono attività di vigilanza e monitoraggio lungo i fiumi anche sempre più associazioni, che in alcuni casi vengono coinvolte dalla stesse autorità, come le Guardie Ecologiche Volontarie.
GUERRE PER L'ACQUA: CHI GOVERNA SUL FIUME? Visti i tanti interessi che dipendono dall'uso dei fiumi, il loro "governo" è particolarmente delicato. In Italia la gestione è regolata dai Piani di Utilizzo delle Acque e dai Piani di Bacino elaborati dalle Regioni insieme ad altri enti, come le autorità di bacino, i consorzi di bonifica e gli Enti locali, e a cui, nei casi migliori, contribuiscono anche le associazioni ambientaliste. In Italia i bacini fluviali ricadono interamente nel territorio nazionale (tranne qualche piccola eccezione lungo i confini alpini) per cui il governo dei fiumi non può generare conflitti internazionali. Ma non è così in altre parti del mondo, per esempio per fiumi come il Tigri e l'Eufrate, contesi tra Turchia, Siria e Iraq, oppure il Gange, conteso tra India e Bangladesh.
E in alcuni casi la lotta per il controllo dei fiumi diventa un obiettivo di guerra com'è successo tra Israele e Siria durante la Guerra dei 6 Giorni (1967), quando Israele prese le alture del Golan (Siria), dove si trovano le sorgenti del Giordano.
PASSATO E FUTURO: COME SI RECUPERA UN FIUME? «I fiumi sono i reni della Terra, i depuratori sono le apparecchiature per la dialisi», sintetizza Giovanni Damiani, una delle massima autorità ambientali in Italia. Per le loro caratteristiche naturali gli ambienti fluviali naturali riescono a "digerire" anche grandi carichi inquinanti e a "riprendersi" velocemente dal degrado. Per questo mantenerli in buona salute è vitale dal punto di vista sia ambientale sia umano. I fiumi italiani però non sono proprio in buono stato e per recuperarli servono interventi urgenti sulle fonti di inquinamento "puntuali" e "diffuse" e a garanzia del deflusso minimo vitale. Soprattutto bisognerebbe ripristinare il più possibile l'habitat naturale dei corsi d'acqua, eliminando le sponde cementificate e restituendo al fiume anse e canneti, in modo da fare rallentare la corrente e dare il tempo a batteri e alghe di decomporre gli inquinanti. Allo stesso tempo, questo ritorno al passato eviterebbe gli eventi di piena rovinosi e drammatici che sempre più frequentemente colpiscono il nostro Paese.
# LIBRI
# Lineamenti di ecologia fluviale, Stefano Fenoglio e Tiziano Bo, ed. Città Studi 2009, 19 euro.
# Un pianeta senz'acqua, viaggio nella desertificazione contemporanea, Fred Pearce, ed. Il Saggiatore 2006, 22 euro.
# I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia, Angelo Del Boca, Editori Riuniti 2007, 16 euro - Per anni gli storici hanno negato che il regime fascista avesse utilizzato le armi chimiche nelle guerre coloniali in Libia, Eritrea, Etiopia e Somalia. Il primo a portarne le prove, nel 1996, fu Angelo Del Boca, che dimostrò l'impiego su vasta scala di bombe ai gas vescicanti sui guerrieri etiopi da parte dell'aviazione fascista. Una parte di quei gas era prodotto nel polo chimico di Bussi sul Tirino (vedi Fiume Aterno-Pescara).
# DOSSIER
# Legambiente, Campagna operazione fiumi
# Rivers in crisis - Global threats to human water security and river biodiversity (in inglese), Nature, 30 settembre 2010: il sommario dello studio e le mappe in libera consultazione.
# Wwf Abruzzo, dossier depurazione scarichi civili (pdf)
# Wwf Calabria, La valle dei veleni (pdf)
# Wwf Calabria, Le navi dei veleni (pdf)
# Wwf, Campagna libera fiumi
# DOCUMENTI
# Arpa Campania, Relazione sullo stato dell'ambiente 2009
# Arpa Lombardia, bollettini campagne analisi acque e sedimenti del Lambro
# Arta Abruzzo, Rapporto sullo stato dell'ambiente 2005
# Asl - Roma G, la contaminazione nella Valle del Sacco
# CIRF, Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale
# Commissione Europea, The EU Water Framework Directive (2000/60/EC): sito in inglese, documentazione in italiano
# Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause dell'inquinamento del fiume Sarno (relazioni)
# Eea (European Environment Agency), Water resources across Europe (in inglese, pdf gratuito, 4 MB)
# Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change - Climate Change 2007: Working Group II: Impacts, Adaption and Vulnerability - Water resources (in inglese)
# Ispra, annuario dei dati ambientali 2008 - Capitolo "Idrosfera"
# Ispra, annuario dei dati ambientali 2009 - Capitolo "Idrosfera"
# Istat: censimento delle risorse idriche ad uso civile 2008
# Istituto superiore di sanità, Microbiologia del fiume Sarno
# Ministero dell'Ambiente, Risorgive e fontanili (Quaderni Habitat 2, versione pdf)
# PeaceLink, Le guerre per l'acqua
# Regione Abruzzo, Piano di tutela delle acque 2010
# Regione Abruzzo, Sito di interesse nazionale "Bussi sul Tirino"
# Regione Abruzzo, Sito di interesse nazionale "Saline e Alento"
# Regione Calabria, Piano di tutela delle acque 2009
# Regione Calabria, Rapporto sullo stato dell'ambiente 2007
# Regione Lazio, Piano di tutela delle acque 2007
# Regione Lazio, Quarto rapporto sulla qualità delle acque superficiali e sotterranee della provincia di Roma, 2007
# Regione Lombardia, Programma di uso e tutela delle acque
Per aver fornito consigli, suggerimenti e informazioni ringraziamo:
Arpa Calabria; Arpa Campania; Arpa Emilia Romagna; Arpa Lazio; Arpa Lombardia; Arta Abruzzo; Asl Roma G; Ato Calabria; Ato Pescara; Autorità dei bacini di rilievo nazionale dell'Abruzzo; Autorità di bacino dei fiumi Liri-Garigliano e Volturno; Autorità di bacino del Po; Autorità di bacino del Sarno; Autorità di bacino del Tevere; Cer (Consorzio di bonifica Emiliano Romagnolo); Cirf (Centro italiano per la riqualificazione fluviale); Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente; Comitato Bevere; Comitato civico Natale De Grazia; Comitato Mare Libero; Comitato per l'Aniene; Commissariato per l'emergenza del bacino dell'Aterno Pescara; Commissariato per l'emergenza del fiume Sarno; Commissariato per l'emergenza della Valle del Sacco; Corpo forestale dello Stato; Dipartimento Salute e Sanità della Regione Calabria; Ecoistituto Abruzzo; Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale); Iss (Istituto superiore di sanità); Legambiente; Libera - Nomi e Numeri contro la Mafia; Rete per la tutela della Valle del Sacco; Università del Piemonte Orientale, facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali; Wwf.